martedì 28 aprile 2020

Fase 2
Il liberalismo che non c’è


Mai in passato si  era avvertita come  oggi   la mancanza di una cultura liberale diffusa. Non parliamo del liberalismo macro-archico, semisocialista, negli Usa  definito liberal,  che impone i diritti a colpi di decreti e che evoca società, dove i gruppi (non più gli individui), gelosi dei propri diritti, soprattutto sociali, pagati dallo Stato, se le danno di santa ragione: abortisti contro non abortisti, “eutanasisti" contro "non eutanasisti”,  gay contro omofobi,  femministe contro misogini, eccetera, eccetera. Questa concezione con il liberalismo non  ha nulla a che vedere. E' una fotografia statale della società suddivisa in gruppi armistiziali, contrapposti: una società  pronta a  deflagrare da un momento all’altro.
Invece di quale cultura liberale parliamo?  Quella che, nonostante il clima mondiale di isteria,  ha consentito,  come in Svezia e in altri paesi, un approccio soft  al Coronavirus fondato non sul potere coercitivo dello stato, ma  sul senso di responsabilità dell’individuo. Si è  intervenuti solo con provvedimenti restrittivi localizzati, lasciando che le persone scegliessero liberalmente da sole come comportarsi.  
L’esatto contrario di quel che è accaduto in Italia, dove dalla sera alla mattina  il governo ha decretato gli  arresti domiciliari di sessanta milioni di cittadini, usando i poteri coercitivi dello stato.  In un paese a cultura liberale diffusa ciò non sarebbe stato possibile. Si veda, ad esempio, la varietà di reazioni politiche non costrittive, o comunque  semicostrittive,  negli Stati Uniti,  Gran Bretagna, Germania, dove esiste una cultura del rapporto tra stato e governo di tipo liberale.
Il nostro paese, in pratica, ha sposato il modello totalitario Cinese, estendendolo in poche ore  a tutto il territorio nazionale. E i cittadini, opportunamente terrorizzati,  si sono  piegati ai voleri dello stato. Fortunatamente da noi  - per ora -  c’è maggiore libertà che in Cina, e gli anticorpi liberali,  benché intossicati,  continuano a  circolare nel corpaccione statalista dell’Italia, come provano le reazioni, seppure timide,   alle cosiddette misure  della Fase  2.

Però di quale liberalismo si tratta?   
Un liberalismo, semisocialista, macro-archico, liberal, che  continua a ritenere che lo stato  sia la soluzione e non il problema.  
Invece di riflettere sull’ennesimo fallimento dello stato su tutto il fronte, da quello economico  a quello epidemico: i soldi promessi da due mesi nessuno ancora li ha visti; l’epidemia si sta spegnendo da sola. Invece di riflettere, dicevamo, si tende la mano  per ricevere qualcosa: il prete  vuole la messa con i fedeli, i parrucchieri i clienti a numero chiuso, le partite Iva un pugno di euro, gli esercenti le bollette,  gli industriali i finanziamenti pubblici, insegnanti e magistrati andare lo stesso in vacanza, i poliziotti gli straordinari, i  medici e gli  scienziati più soldi e più potere.
Tutti, ripetiamo, tutti, vogliono qualcosa dallo stato,  perché lo  ritengono onnipotente.  Sicché si ragiona inutilmente su come farlo funzionare meglio, non su  come metterlo nella  condizione di intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini, insomma di non nuocere, come imporrebbe una autentica  cultura liberale.

E qui ritorniamo alle misure soft antivirus, al senso di responsabilità, all’importanza dell’individuo, all’accettazione anche del rischio, in tutti campi, quel rischio  che  rappresenta il sale della cultura liberale.  Una cultura che quando si è professori  implica la ferrea volontà di studiare sempre, accettando il conseguente rischio di rimettersi ogni volta in discussione. 
In Italia, invece, come provano i grandi quotidiani pseudoliberali, dalla “Stampa” a  “Repubblica”, dal  “Corriere della Sera” al “Sole 24 ore”, l’unica versione compatibile del liberalismo con la nostra antropologia culturale e sociale  è quella dell' individualismo assistito,  perché riconosce allo stato, cosa che piace a quasi tutti gli italiani, il ruolo di macchina distributrice di diritti e denari.
Se ci si passa la battuta, l’italiano vuole fare l’ individualista, non a spese proprie ma a spese dello stato. Si vogliono fare i propri comodi, ma con il paracadute pubblico. L'italiano non  ama  rischiare. O meglio non ama  le responsabilità insite in ogni scelta. Responsabilità che non possono non implicare il rischio di non farcela. E allora, pur di non fallire,  o non si agisce o  si vuole il paracadute. Dello stato.
Ed è questo lo spirito, purtroppo, con cui l’Italia sta affrontando la Fase  2. 

Carlo Gambescia