Il Senato approva il "testamento biologico"
Conquista di civiltà?
Conquista di civiltà?
La legge approvata ieri dal Senato, sulle "Norme in materia
di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari al fine di evitare l' accanimento terapeutico", può essere
definita una conquista di civiltà? Oggi c’è chi la definisce così. Purtroppo,
non abbiamo potuto prendere visione del testo, perché non ancora
pubblicato (*), ne sappiamo, dai giornali, quanto i lettori.
In verità il punto è un altro e riguarda ciò che si può
definire motorizzazione del diritto pubblico attraverso la moltiplicazione dei diritti privati. Ci spieghiamo subito.
Se si fa collimare la civiltà con lo sviluppo dell’organizzazione legislativa dei diritti individuali, addirittura
intimi, come quando si tratta di vita e di morte, allora ieri si è raggiunto il punto più alto del welfare dei diritti. Se invece si
prende come metro di misura della civiltà,
l' assenza di interferenze organizzative al libero dispiegarsi della libertà umana, ieri si è
toccato il punto più basso. Esageriamo? Il lettore presti attenzione: chi dice diritto, dice organizzazione, chi dice
organizzazione, dice burocrazia, chi dice burocrazia dice predominio di norme e regolamenti sulla libertà umana.
Da ciò che riferiscono i
giornali, la legge, pur non prevedendo
esplicitamente il diritto di obiezione
del medico al Dat (Disposizioni Anticipate di Trattamento), nel caso di rifiuto alla sospensione le cure, lo assolve da qualsiasi responsabilità penale e civile. Il che sul piano della libertà di coscienza è nobilissimo. Tuttavia, già la stampa cattolica - come è suo diritto, per carità - parla minacciosamente di “obiezioni”
massicce. Pertanto, come già capitato con altre pratiche, potrebbero mancare i
medici disposti ad applicare la legge. Il che, in un sistema pubblico come quello italiano, rischia di innescare contenziosi politico-amministrativi, ad esempio per la serie "chi cambia di mansione chi".
Inoltre, la legge stabilisce, il
consenso informato - altra cosa nobilissima, per carità - in particolare nel caso di patologie dalla prognosi infausta. Il che però significa che i medici saranno obbligati a conferire con
il paziente. Ma su quali basi cognitive? Quelle di una comunità scientifica che non è d’accordo
su ciò che significa "accanimento terapeutico"? E per il semplice fatto che la scienza medica è in
continua trasformazione?
In sintesi: da un lato abbiamo una decisione individuale-esistenziale, quella del paziente, decisione che come prevede la legge può cambiare; dall’altro però, abbiamo la
scienza medica che “marcia” a una velocità superiore, o comunque diversa (perché ragiona sui grandi numeri) a quella che scandisce le singole
esistenze (limitata e basata sui "piccoli numeri" della famiglia, degli amici, del lavoro).
Attenzione però, perché non è ancora finita: in mezzo, diciamo così, tra scienza e individuo, c’è un’organizzazione, quella sanitaria, che per agire, nel senso di sospensione delle terapie, ha necessità di requisiti minimi, di standard insomma, dettati però da cognizioni medico-scientifiche in continua evoluzione.
Attenzione però, perché non è ancora finita: in mezzo, diciamo così, tra scienza e individuo, c’è un’organizzazione, quella sanitaria, che per agire, nel senso di sospensione delle terapie, ha necessità di requisiti minimi, di standard insomma, dettati però da cognizioni medico-scientifiche in continua evoluzione.
In pratica, si legifera sull’acqua. Per parafrasare Eraclito, non ci si bagna mai due volte nelle acque dello stesso
fiume. La civiltà, come del resto la
società, a cominciare da quella
scientifica, è qualcosa di indefinibile,
di inafferrabile, perché legata a temporalità e velocità assai diverse, proprio perché in
continuo movimento. L’organizzazione, invece, ha necessità di acque stagnanti. Insomma, di strutture decisionali e di uomini,
sempre uguali a se stessi, prevedibili e iterativi nei comportamenti. Si potrebbe parlare di immobilità figurativa. Di qui,
i sempre possibili conflitti tra forma (organizzativa), pur necessaria, e vita (reale), altrettanto e forse ancora più necessaria. Siamo davanti alla gigantesca e inarrestabile lotta tra il "dover essere" organizzativo, statico, e l’ "essere sociale", dinamico, nelle sue più diverse manifestazioni.
La motorizzazione organizzativa del diritto (e dei diritti), di cui parlavamo all’inizio,
dietro la melliflua maschera
welfarista, “del più diritti, più felici”, non potrà mai andare più veloce, per così dire, del flusso vivente del divenire sociale dettato dagli
individui che compongono la società: con i loro interessi e valori, dall'economia alla scienza, sempre mutevoli. Parliamo di uomini e donne che sono il vero "motore" di ogni società,, il cui brusio ne rappresenta lo sfondo sonoro, inavvertibile. Detto altrimenti: è impossibile sapere ciò che sia bene per ogni singolo individuo. Figurarsi poi, fissarlo per via legislativa ...
Perché allora non prenderne atto? Come? Meno leggi, meno organizzazione E soprattutto più delegificazione. Ad esempio, per chiamare onestamente le cose con il loro nome, sarebbe bastato, depenalizzare l’ articolo 580
del Codice Penale sull’istigazione o
aiuto al suicidio.
Carlo Gambescia
(*) Nel momento in cui scriviamo: http://www.senato.it/versionestampa/stampa.jsp?thispage