sabato 31 maggio 2025

Il Sud e il paradosso della modernizzazione criminale

 


Il problema del Sud nel mondo è questione legata allo sviluppo della modernità. Con lo sviluppo della moderna economia industriale c’è chi è rimasto indietro, per scelta, necessità, caso.

Si pensi ai “sudisti” negli Stati Uniti legati a un’ arcaica economica schiavistica da latifondo romano. Ma si pensi anche a intere aree, come l’Europa mediterranea rispetto al Nord Europa. La stessa Russia zarista aveva il suo Sud più a Nord, Nord Est, nella Siberia, sconfinante nella Russia asiatica.

Diciamo pure che non è esclusivamente questione di posizione geografica (Nord, Sud) ma di posizione rispetto allo sviluppo della modernità economica (capitalismo e scambi globali), culturale (relativismo e tolleranza), politica (stato di diritto ed istituzioni parlamentari).

Insomma di apertura o chiusura verso le forme di società moderna appena ricordate. Ad esempio la chiusissima Corea del Nord non si può definire più moderna della Corea del Sud, che pur con alcuni limiti politici, è un buon esempio di società aperta rispetto alla società totalitaria rappresentata dalla Corea del Nord.

Pertanto quando si scrive del Sud possiamo rilevare due atteggiamenti: o un invito a modernizzarsi o un invito, in senso contrario, a demodernizzarsi. Ovviamente esistono anche posizioni intermedie, che per semplificare, ignoriamo.

Per venire all’Italia qualche anno fa ebbero una certa fortuna i libri di Franco Cassano sulla necessità per il Sud di riscoprire certa lentezza antropologico-culturale che ne innervava la storia. Cassano non era un controrivoluzionario eppure le sue idee racchiudono tuttora critiche non proprio tenere verso la modernità. Certo, nulla a che vedere ovviamente con i toni elegiaci di un Marcello Veneziani (da ultimo, si veda il caramelloso C’era una volta il Sud).

Comunque sia, Cassano resta lontano anni luce dai difensori della modernizzazione del Sud. Sul piano storico novecentesco, pensiamo a Nitti (economica e fiscale), Salvemini ( in primis, culturale), Gramsci (socialista e rivoluzionaria).

Paradossalmente, come provano, su versanti culturalmente opposti, anche stilisticamente parlando, i libri di Sciascia e di Saviano, le uniche reti sociali, preesistenti alla modernizzazione, che hanno saputo andare al passo con i tempi sono le organizzazioni mafiose e camorristiche (d'ora in avanti  useremo solo il termine mafia, per ragioni brevità). 

Per capire, al volo, quindi al di là della pagina scritta, come queste reti abbiano accettato e vinto la sfida della modernità, basta la visione – nell’ordine – di film come “In nome della legge” di Germi (1949), “Le mani sulla città” di Rosi (1963), “Gomorra” di Garrone (2008), “Suburra” di Sollima (2015).

Nel film di Germi è la mafia stessa a consegnare un colpevole alla Giustizia, in quello di Sollima sono alcuni avidi uomini di legge a fiancheggiarla.

Va detto che la letteratura sulla mafia si è trasformata in una specie di “romanzo criminale”, anche a sfondo ideologico, soprattutto nell’immaginario di sinistra, che ha fatto fare soldi a palate a editori e produttori. Però questo fatto qui non interessa. Ci preme solo evidenziare la capacità di adattamento alla modernità, come fenomeno economico (capitalismo e scambi globali), mostrata da un organismo in apparenza arcaico (la mafia).

Ovviamente per la mafia si può parlare di una integrazione economica nella modernità, che esclude l’integrazione politica (stato di diritto) e l’integrazione culturale (relativismo e tolleranza). Mentre il resto della società meridionale, a parte una minoranza illuminata, sociale e intellettuale, si è integrata politicamente e culturalmente ma senza convinzione, in modo passivo.

In sintesi: da una parte c’è una mafia attivamente integrata sul piano economico, dall’altra una società che non ha mai completato il processo di adattamento alla modernità economica, politica e culturale che vivacchia in termini di integrazione passiva.

Perché un’ associazione criminale è stata più abile della società non criminale nell’intercettare la modernità?

Probabilmente perché la sua élite dirigente si è mostrata superiore all’élite dirigente della società civile. Il che spiega, storicamente parlando, il divario mai colmato tra Nord e Sud. Una questione di qualità della rispettive classi dirigenti.

Del resto la selezione è inevitabile, perché la società è sempre governata da pochi. Siamo davanti a una regolarità metapolitica. Diciamo però che al Sud la selezione delle élite dirigenti ha premiato i “cattivi”. Il che spiega per ricaduta anche le connivenze tra mafia e politica e la guerra allo stato. In un’alleanza è sempre l’alleato più forte a indicare il nemico. E quale nemico poteva indicare la mafia alla politica? Lo stato.

In definitiva, il problema del Sud non è solo questione di sottosviluppo, né si riduce a una cartolina pittoresca da riscoprire con nostalgia. È, piuttosto, il risultato di un processo di modernizzazione zoppo, dove i meccanismi naturali di selezione delle élite, ai quali, si badi, non si comanda, hanno premiato l’adattabilità del crimine all’economia di mercato, mentre hanno penalizzato la società civile, che a dire il vero, neppure si è posta il problema di costruire classi dirigenti autenticamente moderne. Del resto non si tratta di cosa facile, perché una società tende a premiare il successo, spesso a spese dei valori morali: i più abili, senza tanti addentellati morali.

Non si tratta di cedere al determinismo geografico, culturale o sociologico. Si tratta, più semplicemente, di riconoscere una regolarità metapolitica: le società cambiano quando cambiano le loro élite. E le élite cambiano solo se intravedono, con lucidità, un possibile successo all’orizzonte. Il resto è letteratura.

Il Sud ne verrà fuori? Forse. A una condizione: che emergano élite capaci di rompere il patto tacito con l’illegalità e di parlare un linguaggio della modernità non subìta, ma costruita.

Il che, ripetiamo, non è facile perché questione di secoli, forse di generazioni. Ad esempio un grande patrimonio, non solo economico, si accumula e disperde almeno in quattro generazioni. Per capirsi: i fondatori, i figli dei fondatori, che apprendono dai padri, i nipoti, che non hanno respirato la stessa atmosfera del fondatore, i figli dei nipoti, che ignorano ogni cosa. E che perciò potrebbe prendere altre strade, addirittura opposte.

Perciò come ogni questione secolare, richiede pazienza. Ma soprattutto una corretta selezione sociale delle élite. Che però spesso è affidata al caso e come detto non risponde a imperativi morali categorici.

Un bel rebus. Metapolitico.

Carlo Gambescia

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