giovedì 1 maggio 2025

Occupazione. I governi combinano solo guai…

 


In una società libera il compito del “Governo”, o se si preferisce dello “Stato”, non è quello di “ creare posti di lavoro”. Pertanto discutere a proposito dei posti di lavoro creati o meno dai poteri pubblici è fuorviante. Il problema non è la farsesca (come vedremo) battaglia dei numeri tra Giorgia Meloni e la sinistra. E allora qual è?

A differenza di quanto si crede, almeno dagli Trenta del secolo scorso alla luce delle equivoche politiche roosveltiane-hitleriane, non è lo stato a creare posti di lavoro ma il mercato. Ecco il punto.

Cosa intendiamo dire? Mercato nel senso specifico di una crescita del volume di produzione e scambi al cui centro ci sono imprese che innovano e consumatori affamati di beni, perché le imprese che innovano assumono: producono posti di lavoro e reddito, e così via. Nel 1945, con il ritorno della pace e del libero scambio, l’economia mondiale risorse.

Il meccanismo è molto semplice, ed è inutile complicarlo. Si pensi alla discussione sui salari nominali e reali: ricorda quella medievale sul sesso degli angeli.

Ciò che conta, e conta veramente, è che il meccanismo del   libero mercato per ottant’anni ha funzionato.

Meccanismo  messo in crisi, prima dall’aggressione russa all’Ucraina, poi intralciato dalle misure protezionistiche di Trump (minacciate o meno). Misure che significano una cosa sola: riduzione dei consumatori, riduzione della produzione e degli scambi.

Si immagini, una torta che si fa più piccola, e che di conseguenza, a parità di invitati, sarà tagliata in fette sempre più piccole.

In un quadro economico così critico discutere di “posti di lavoro creati dal governo” ricorda quei comandanti militari, come l’ultimo Hitler chiuso nel bunker, che sulla carta geografica spostano le bandierine di battaglioni e reggimenti che non esistono più.

Purtroppo siamo davanti a una credenza, ormai consolidata da almeno un secolo. Quale? Che i governi dispongano di poteri taumaturgici nei riguardi dell’economia. Nel Medio Evo, ma ancora nei primi secoli dell’età moderna, si credeva nel potere reale di guarire i corpi dei sudditi dalle malattie più diverse, come oggi ci si illude a proposito del potere governativo di guarire le malattie economiche che, si ripete a gran voce (soprattutto marxisti, fascisti e fondamentalisti verdi), affliggono i cittadini. Insomma esiste una visione mistica dell'economia.

Malattie che in realtà non sono tali, perché la principale caratteristica dell’economia di mercato è quella del succedersi dei cicli economici, una periodicità che si compone di alti e bassi: diciamo pure, per restare in metafora, di raffreddori stagionali. Perciò basta saper attendere e il raffreddore, pardon la disoccupazione, si trasformerà in occupazione. 

La cosa essenziale da fare è quella di non dare retta alle mitologie negative intorno al capitalismo. La stessa speculazione, che viene così stigmatizzata, non è altro che una forma di autodifesa: una ricerca di spazi liberi dalle ingerenze  pubbliche. Più si tenta di impedirla, più il capitalismo si atrofizza. Si evitino invece le ingerenze, e il capitale  tornerà ad affluire liberamente verso altre forme di investimento tornate ad essere più invitanti.

Queste mitologie fanno male alla pubblica opinione, determinano sfiducia, perché, ogni volta, scambiano erroneamente, e quasi sempre in cattiva fede, un volgare raffreddore con una polmonite mortale. Brutti corvacci (pardon).

Negli ultimi ottant’anni la morte annunciata del capitalismo, a ogni fase negativa del ciclo, non si è verificata. Per inciso, si incominciò a parlare di cicli interni al capitalismo, quando lo si “scoprì”, nell’Ottocento, anche come risposta alla catastrofica ed erronea teoria del ciclo unico profetizzata da Marx.

Ciò significa che il sistema funziona e  in barba alla pseudo legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. 

Per usare altre parole: la freccia del progresso, e di tutti i fondamentali economici e sociali, continua a salire dal XVIII secolo verso l’alto. 

Ripetiamo: solo un fascista, un comunista, un fondamentalista verde possono sostenere il contrario. Per quale ragione? Perché i “corvacci” (pardon) odiano non ragionano.

Si rifletta. Negli anni Trenta del Novecento, il colpo di grazia all’economia mondiale, che soffriva di una crisi da sovrapproduzione derivante dalla trascorsa e disastrosa economia di guerra, fu dato proprio dal protezionismo che ridusse, come detto, le dimensioni della torta mondiale. Altro che colpa del libero mercato… È il protezionismo che va assolutamente evitato.

Semplifichiamo troppo? Che faranno i lavoratori nelle fasi negative del ciclo? Prima di rispondere, si deve distinguere tra disoccupazione strutturale e disoccupazione da ciclo economico. La disoccupazione strutturale è un’ invenzione dei sindacati e degli economisti anticapitalisti (a destra come a sinistra). Quella da ciclo invece è fisiologica.

Perciò parleremmo senza mezzi termini di una visione isterica del ciclo economico per favorire l’interventismo pubblico, che come prova la crisi degli anni Trenta, porta con sé protezionismo e guerre. Quindi non migliora ma aggrava la situazione.

Però che faranno i lavoratori? Dovranno armarsi di pazienza e accettare temporaneamente lavori meno pagati. Temporaneamente, si badi. In attesa che il ciclo riparta verso l’alto, all’interno di quella gloriosa freccia del progresso già ricordata.

Quanto può durare la fase negativa? Dipende da quanto governo e stato si terranno lontani dall’interferire con il ciclo economico (né politiche procicliche né anticicliche). Nel 1939 gli Stati Uniti, nonostante l’interventismo pubblico, non erano ancora usciti dalla crisi. La Germania, vi era uscita prima, ma di poco, puntando però su riarmo e protezionismo. Come del resto l’Italia, lanciatasi in sciagurate guerre coloniali e ideologiche.

I “posti di lavoro” li crea il mercato non lo stato. “Tutto il resto è noia”, per dirla con un grande economista del Novecento, Franco Califano.

Oppure, come dicevamo all’inizio, una farsa.

Carlo Gambescia

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