Viviamo tempi in cui ogni forma di dissidenza culturale viene immediatamente assorbita dal circuito istituzionale della ribellione codificata: festival, premi, case editrici, influencer con il master in postmarxismo applicato. Senza dimenticarsi dell’altro circuito: quello dell’ordine codificato, per il quale ribellarsi significa esclusivamente sputare veleno sulla sinistra e professare una specie di subdolo postfascismo, altrettanto applicato.
Paradossalmente, ribellarsi è d’obbligo, però a comando: purché lo si faccia dentro i binari tracciati dal vecchio e nuovo conformismo. Ecco perché la figura di Goliarda Sapienza rimane scomoda. Anzi, diremmo imbarazzante.
Scomoda non perché urlasse. Ma perché pensava in proprio, senza cercare alcun ruolo nella rappresentazione ufficiale della trasgressione. In ciò, paradossalmente, Sapienza è più libera oggi di quanto non lo siano certi tribuni del decostruzionismo da salotto. Non scriveva per cambiare il mondo, come imponeva l’egemonia gramsciana, ma per affermare una verità individuale, una libertà profonda, carnale e spirituale. In questo senso – e con le dovute proporzioni – si colloca, per usare un registro alto, nella linea di un Montaigne, di una Madame de Staël, o di certi moralisti francesi, capaci di sviscerare l’animo umano con chirurgica pietas.
Chi oggi la legge (finalmente) riscopre in lei un’idea di libertà interiore, affrancata sia dalla morale piccolo-borghese che dalle ideologie.
Figlia di socialisti, cresciuta nel fuoco di un’educazione libertaria, Goliarda porta in sé il germe del dissenso che non cerca l’applauso. Scrive L’arte della gioia – romanzo-mondo, romanzo-monade – come sfida intellettuale ed etica, non come programma politico.
E qui sta la differenza sostanziale. Perché Modesta, la protagonista, non è un’icona femminista prêt-à-porter. È piuttosto l’archetipo di una soggettività in lotta contro ogni forma di costrizione, incluse quelle travestite da liberazione. Si muove tra conventi, salotti aristocratici, manicomi e prigioni con una lucidità che ricorda certe eroine dostoevskiane e raindiane. Non cerca il riscatto sociale, ma la propria verità esistenziale, e in questo senso ontologica, fondante, come la Sonja di Delitto e castigo e la Kira di Noi vivi.
C’è del metodo nietzscheano nella “ follia” libertaria di Goliarda Sapienza: concretezza contro astrattezza.
Come Goliarda, Modesta, la protagonista, è individualismo vissuto, incarnato. È libertà senza slogan. È, nell’ordine e tutti insieme, Dostoevskij, Nietzsche e Ayn Rand. Talvolta di più, talaltra di meno. Ma il senso generale è profondamente libertario.
Rifiutò di “militare” culturalmente. Non era pasoliniana, non era femminista nel senso militante, eccetera, eccetera. Né tantomeno fascista o postfascista. Era sola, nel senso più tragico e alto. E il mondo editoriale dell’epoca, ovviamente, la ignorò. Solo dopo la morte, come capita ai non allineati, venne “riscoperta”, non senza quel sottile tentativo di addomesticamento postumo: farne addirittura una scrittrice queer, femminista, disobbediente ma secondo il manuale. A tale proposito, come amanti traditi, attaccati per tutta la vita al primo magnifico incontro (“Morte di un matematico napoletano”) sospendiamo il giudizio sul film di Martone che “ferzanozpetekinizza” la scrittrice. Per inciso, a quando la sua “aldamerinizzazione”?
Ecco perché, nel contesto di una cultura che confonde la libertà con il capriccio e l’autenticità con la posa, Goliarda Sapienza ci appare oggi come un richiamo silenzioso ma potente. Alla responsabilità di vivere, prima ancora che di scrivere. Alla gioia – sì, proprio alla gioia – come arte tragica e sovversiva.
In fondo, come diceva Camus, “il vero scandalo è essere felici”. E Goliarda Sapienza, da vera anarchica dell’anima, lo fu, fino in fondo.
Carlo Gambescia
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