martedì 27 maggio 2025

Jafar Panahi e la libertà che non vogliamo più

 


Quando si dice il caso. Proprio qualche settimana fa abbiamo rivisto un film di Jafar Panahi, regista iraniano, incarcerato e perseguitato: “Taxi Teheran” (2015) (*). Ora apprendiamo della Palma d’Oro vinta con “Un semplice incidente”, ultima sua fatica. Perfetto. La verità, anche artistica, si vendica quasi sempre.

Un artista imbavagliato. Uomo timido e mite. Che dire? Il solito regime teocratico che punisce la creatività come se fosse blasfemia. L’occhio indagatore  del regista deve subire la sorte di quello di Polifemo.

Un regista però pluripremiato in Europa (e a ragione, perché bravo: un sopraffino impasto di Buñuel e De Sica). Qualche anno fa vinse l’Orso d’Oro a Berlino proprio con “Taxi Teheran”.

“Taxi Teheran” è un film geniale, girato di nascosto, nella capitale iraniana, dove Panahi tuttofare, anche in veste di attore, si mette alla guida di un taxi. E, con una telecamera interna, ci mostra l’Iran di oggi, attraverso clienti forse attori veri, forse no, che salgono e scendono dal suo taxi: un ladro fanatico della pena di morte, una maestrina da libro cuore che invece è contraria, un simpatico nanetto venditore di dvd pirata di film occidentali, due logorroiche donne molto superstiziose, una quasi vedova non proprio allegra, una fiera avvocatessa delle donne a suo rischio e pericolo, e così via.

Una specie di film in scatola(-taxi), che ci restituisce quel clima da banalità del male che segna l’Iran di oggi che insiste e resiste. Vi si sopravvive, e ovviamente male, ma si sopravvive sotto il cielo plumbeo di un regime retrogrado che vuole imporre la sua verità unica.

Coloro che si scagliano contro Israele, dovrebbero vedere questo film. E per una semplice ragione, i Netanyahu passano, gli Ajatollah no. Israele è una democrazia, non è un blocco unico reazionario. Che cosa sono 15 secoli (arrotondiamo) di bombardamento teologico contro due decenni, a rate tra l’altro (quelli di Netanyahu), di incursioni aeree e militari? Piaccia o meno, ma le bombe teologiche causano gli stessi danni delle bombe atomiche…

Ovviamente Panahi non è così diretto, e probabilmente se lo si interpellasse in argomento, spezzerebbe una lancia in favore della popolazione palestinese. Anche giustamente, visto come stanno andando le cose.

Però, lo spettatore occidentale di “Taxi Teheran”, quello in buona fede (non il simpatizzante di Trump e Putin), non potrà non apprezzare quel passaggio del film, quando l’arguta nipotina del tassista-Panahi svela, in modo implicito, cioè raccontando con grande naturalezza la sua giornata a scuola, quanto capillare sia il controllo delle menti, soprattutto nei bimbi: si parla loro di pubblica decenza, di rispetto delle tradizioni e dei ruoli sociali, quindi anche del ruolo subordinato della donna, di legge islamica, della saggezza infinita di coloro che governano, di evitare, quando si scrive e si parla qualsiasi forma di “torbido realismo sociale”, e così via. E quando la nipotina chiede allo zio, cosa significhi quest’ultimo termine, il volto di Panahi assume la stessa espressione di Umberto D quando gli si annuncia, per l’ennesima volta, il prossimo aumento della pensione…

Un mantra fondamentalista che in Occidente, guadagnando voti, le destre, peggio ancora se estreme, ripetono, mai sazie. Che cos’ è in fondo il Dio, patria e famiglia? La versione occidentale, cristianizzata, del fondamentalismo islamico. Ovviamente i due fondamentalismi si guardano in cagnesco. Il che non significa che i fondamentalisti dell’occidente siano migliori dei fondamentalisti iraniani. Pari sono. E come per Netanyahu : il woke passa, il fondamentalismo religioso resta. Per dirla alla buona: le mode passano, le religioni del libro restano.

Per contro Jafar Panahi guarda all’Occidente, pre Trump, pre Meloni, eccetera: all’Occidente liberale. La Russia di Putin neppure è presa in considerazione. In questo senso un film come “Taxi Teheran”, come del resto la sua intera produzione, parla dell’Iran, ma parla anche all’Occidente, che sembra aver dimenticato la grande lezione liberale.

Il messaggio di Panahi è rivolto non solo i cittadini iraniani, ma anche l’Occidente delle piazze settarie, dei talk show, dei social saturi di indignazione selettiva, dove si difende ogni libertà tranne quella che davvero costa qualcosa: la libertà di pensiero, di parola, di dissenso autentico.

Sarebbe fin troppo facile limitarsi a denunciare le dittature religiose. Ma quale immunità morale può vantare un Occidente che elegge leader ossessionati dal nemico interno ed esterno? Che alimentano paure tribali, che confondono l’ ordine con l’obbedienza, il governare con il comandare, l’identità con la chiusura?

Donald Trump in America, Giorgia Meloni in Italia: due nomi diversi, un’unica retorica dell’assedio. “Prima noi”. “Difendiamo i valori”. “Basta intellettuali”.

In tal senso, Panahi non è solo un regista iraniano. È un filosofo politico della cinepresa. E come ogni vero filosofo invita le persone, tutte le persone, a guardarsi allo specchio.

Per contro l’Occidente che vede in Panahi una specie di eroe esotico da festival non ha capito nulla. Perché Panahi ci riguarda. Ci interpella. E ci giudica. Non perché siamo meno liberi. Ma perché non vogliamo più esserlo davvero.

La democrazia corre il rischio non tanto di perdere la libertà, quanto di dimenticarne il prezzo. Panahi, con ogni sua inquadratura, ci ricorda quel prezzo. E il fatto che non vogliamo pagarlo più.

Di qui la grandezza politica del cineasta iraniano.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.raiplay.it/programmi/taxiteheran  .Sottotitoli in lingua italiana.

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