Desideriamo segnalare l' articolo (*) di Lorenzo Castellani, ricercatore della Luiss. Articolo che sembra sposare la tesi, non freschissima, della continuità istituzionale dei governi italiani, e in più generale della classe dirigente, dall’Unità d’Italia a Giorgia Meloni (semplifichiamo il concetto, solo perché i lettori capiscano meglio).
Qui, con opportune citazioni, riportiamo la "sintesi" della sua tesi.
«Come abbiamo scritto in apertura l’Italia è un paese a macchia di leopardo, decentralizzato e plurale, senza una nobiltà di Stato e senza aristocrazie industriali-finanziarie, e per molti versi la formazione del suo establishment non segue le dinamiche degli altri paesi occidentali. Non ci sono università monopoliste o oligopoliste nella formazione dell’élite, non esiste un centro dominante che risiede nella Capitale, il centro politico e quello finanziario sono disaccoppiati (uno a Roma, l’altro a Milano), la ricchezza economica e produttiva è ancora molto radicata nelle province, non esiste una élite amministrativa legittimata e rispettata. Questo fa sorgere dei dubbi sull’esistenza stessa dell’establishment e ne determina ancor di più sulla sua compattezza. Contrariamente ad altre nazioni, insomma, non c’è un discorso comune portato avanti dalla classe dirigente, non c’è un epicentro fisico e istituzionale dell’élite. Ciò che si vede in televisione, si legge sui giornali, nei libri o si insegna nelle università, la cosiddetta egemonia culturale gramsciana che predomina in quei settori e che certamente non fa sconti all’attuale esecutivo, non è che la punta più visibile ed esposta di un mondo variegato e affatto compatto »
«Insomma, in un paese in cui in quasi ogni fase storica la politica è gravata da molti pesi – il debito pubblico, l’instabilità, il ritardo nelle riforme, classe politica poco legittimata, una modernizzazione sempre un passo indietro rispetto ai paesi più avanzati – un compromesso tra alcune porzioni del decentrato establishment italiano e il partito politico di turno, qualunque esso sia, lo si trova sempre».
«Tuttavia, forse, ancora di più è importante, in un paese a macchia di leopardo e incline all’adattamento politico, è la separazione tra il momento politico-elettorale e il momento del comando effettivo. È nella soglia di questi due ambienti che maturano gran parte dei cambiamenti che rendono l’Italia un paese che in profondità è molto più immobile rispetto ai tumulti della superficie. Un luogo dove assai raramente si consumano vere e proprie tragedie e rotture politiche, mentre dove molto spesso, al cambio della scena, si trova l’accordo con ciò che è appena divenuto passato. Che dunque non passa » (*).
Cominciamo con il dire che l’ unificazione italiana fu una specie di miracolo, frutto di contingenze politiche internazionali, (la politica estera avventurosa di Napoleone III) e nazionali (l’abilità di Cavour ). Di qui l’avvio zoppicante, ma che tutto sommato, aggiustando il tiro, in poco più di cinquant’anni, grazie proprio a una classe politica, con alto senso delle propria missione, a cominciare dagli uomini della Destra Storica, consolidò e modernizzò l’Italia. Altro che immobilismo.
Insomma andrebbe riscritta la storia dei Ricasoli, dei Sella, dei Minghetti, dei Depretis, dei Crispi, dei Giolitti: di tutta "quella" classe, politica e dirigente (dalla destra alla sinistra, dai liberali ai protezionisti), che, nel suo insieme, come potente legato di valori liberali, vinse una guerra, la Prima.
Cosa vogliamo dire? Che il fascismo non fu il portato di una politica del compromesso sistematico, che veniva da lontano, ma della guerra mondiale e della rivoluzione bolscevica, eventi catastrofici che aprirono un nuovo capitolo, quello della guerra civile europea, evento che cambiò radicalmente le coordinate politiche.
Se compromesso vi fu, riguardò la modalità della presa del potere, la superficie del fenomeno, non la devastante forza di trasformazione di un movimento politico nemico del liberalismo, quindi in netta controtendenza rispetto ai valori politici che avevano caratterizzato il Risorgimento e “quella” classe diremmo politica, prima che dirigente
A causa del fascismo la storia d’Italia cambiò direzione. Si interruppe un processo storico di modernizzazione liberale, politica, sociale ed economica, che lascerà spazio a una serie di ideologie e di pratiche, anche a livello di classe dirigente (quindi non solo politica) prima e dopo la Seconda guerra mondiale, fasciste, comuniste e cattoliche: tutte antiliberali. Con spazi, a livello di classi dirigenti, di servitù volontaria, spesso ben retribuita, prolungatisi fino ai nostri giorni.
Per essere più chiari: l’esatto contrario delle modernizzazione liberale. Una questione politica, inevasa, ma essenziale, di cui il governo Meloni non è che l’ultima incarnazione.
Come in una specie di gioco politico dell’oca, l’Italia sembra oggi essere ritornata alla casella iniziale, della grande mutazione datata ottobre 1922.
Ovviamente, se non si riconosce questa frattura, non resta altra strada interpretativa che quella della continuità sociale-istituzionale che vede nella cattiva formazione delle élite (politiche e dirigenti), non una conseguenza del rifiuto ideologico della modernizzazione liberale, dopo il 1922, ma una specie di onda lunga pansociologica, che tra l’altro non spiega la vera natura liberale dell’unificazione italiana. Che è vero che fu miracolosa, ma proprio questa sua “miracolosità”, mise alla prova, la qualità della classe politica liberale, che resse, e bene, fino al grande conflitto mondiale, quando cambiarono, per ragioni esterne, le regole del gioco politico, in chiave antiliberale.
Mosca, Pareto e Michels (che fra l’altro aveva studiato la socialdemocrazia tedesca non il liberalismo italiano), tutti e tre dotati di una gigantesca cultura storica, nell’elaborare la teoria sulla circolazione delle élite, guardavano non tanto alla storia d’Italia, ma alla storia del mondo, e in particolare a una regolarità metapolitica, che non è altro che una conferma dell'essenza della politologia aristotelica (e machiavelliana) sulla necessità di una classe media diffusa e ben guidata da pochi e abili politici
Ciò che era riuscito, o stava riuscendo, in Italia alla classe politica liberale, come del resto ammise “dopo” lo stesso Mosca, grazie alla democrazia rappresentativa (e alla prodigiosa crescita economica postunitaria studiata da Romeo e Pescosolido).
Invece la “Grande Guerra” rimise in discussione tutto: modernizzazione liberale e crescente compattezza del ceto medio.
I guai dell’Italia provengono dalla rottura fascista, che è un effetto di ricaduta del trauma bellico-bolscevico. Un fenomeno, ideologicamente cruento, che si prolungherà nelle grandi ideologie antiliberali post Seconda guerra mondiale.
Di questo, crediamo, si debba discutere, e non di presunte tare storiche e sociologiche. Ovviamente quanto più ci si allontana da una corretta interpretazione dell’unificazione italiana e del valore della classe dirigente liberale, tanto più si rischia di ricondurre la storia d’Italia dopo l’Unificazione nell’alveo della famigerata notte hegeliana, in cui non esiste più alcuna differenza tra la classe politica e dirigente liberale, quella fascista e quella postfascista.
Per dirla brutalmente, tra la Destra Storica e la destra di Fratelli d’Italia.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://legrandcontinent.eu/it/2023/04/23/giorgia-meloni-sei-mesi-di-tecnosovranismo/ .
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