domenica 30 aprile 2023

Provocazioni. Diritto al lavoro? No, dovere

 


Domani sarà il Primo Maggio. E non si fa che parlare di diritto al lavoro. Che cos’ un diritto? Come scrivono i manuali, un diritto “in senso soggettivo è la facoltà o pretesa, tutelata dalla legge, di un determinato comportamento attivo od omissivo da parte di altri”.

Chi tutela chi? Per un verso, ai nostri giorni, è lo stato a tutelare questa facoltà o pretesa, direttamente, attraverso un apparato fondato sul monopolio legittimo del forza. Per altro verso, è il singolo che può indirettamente rivalersi, ricorrendo ai codici e ai giudici. Si tratta della classica differenza tra diritto penale e civile, tra diritto oggettivo e soggettivo.

In questo quadro il diritto al lavoro che significato acquisisce? Rinvia allo stato o all’individuo?

Per alcuni rinvia allo stato che, in base alla quantità di socialismo, racchiusa nelle sue istituzioni, deve garantire, favorire, addirittura assumere, per tutelare il diritto al lavoro. Però, così facendo, l’obbligo, o dovere, di lavorare, uccide la libertà.

Per altri esiste il diritto al lavoro, ma anche il diritto al non lavoro. L’altra faccia della medaglia diritto. Si tratta di scelte individuali: si può lavorare o meno, esercitare o meno il proprio diritto, pagandone però le conseguenze. Si chiama libertà. E soprattutto, da questo punto di vista, lo stato non deve tutelare alcun al diritto lavoro.

Come è possibile non lavorare in una società in cui il lavoro è l’unica fonte di sostentamento? Non è possibile.

Di qui, la graduale trasformazione di un diritto di scelta in obbligo. Che perciò lo stato deve tutelare: il diritto al lavoro.

Di qui, la nascita di un’etica del lavoro, per giustificare l’obbligo, o dovere, di lavorare. Di qui, le costituzioni che invece di essere fondate sulla libertà, anche di non lavoro, si dichiarano fondate sul lavoro. Di qui, i socialismi, che promettono la liberazione dal lavoro, aumentando però le dosi di lavoro individuale. Di qui, tutte le altre ideologie lavoriste, basate sul principio, piuttosto antico, del “chi non lavori non mangi”.Un vero e proprio apparato coercitivo rivolto contro l’individuo.

È possibile fare un passo indietro? Esistono, in teoria, due soluzioni: la prima è che coloro che lavorano sostengano coloro che decidono di non lavorare; la seconda è che chi non lavori, rinunci volontariamente al sostentamento. Sono due soluzioni praticamente impossibili: la prima punta su una generosità che non esiste in natura, la seconda su una logica suicidaria.

Pertanto la soluzione del diritto al lavoro resta quella socialmente più fattibile. E infatti è largamente accettata. Anche perché gli individui sanno spontaneamente fin dove spingersi: la libertà, a prescindere dai vincoli esterni e dai momenti di esaltazione-repressione, riesce sempre, per nostra fortuna, ad autoregolarsi.

Però, ecco, non lo si consideri un diritto, perché siamo davanti a un obbligo. Diciamo pure, un dovere socialmente accettato, ma non un diritto: perché se fosse tale potrebbe essere esercitato o meno. E così non è.

Carlo Gambescia

sabato 29 aprile 2023

La Chiesa cattolica contro l’Occidente

 


L’espressione può apparire forte. Per alcuni addirittura ingiusta. Però, delle due l’una: o papa Francesco non sembra rendersi conto dei suoi atti, o se ne rende conto, pure troppo.

Ci spieghiamo meglio.

Dal punto di vista dell’aggressione russa all’Ucraina, il viaggio in Ungheria, una delle nazioni più retrive dell’Unione Europea, è uno splendido assist alla Russia, come si dice nel linguaggio sportivo (*).

La Chiesa, passata la grande paura del comunismo, ha rispolverato i vecchi archibugi dell’antiliberalismo e dell’ anticapitalismo. Perciò il Papa non va in visita nell’Ucraina filoccidentale, per giunta aggredita, nicchia sulla Russia nemica dell’Occidente, e vola nell’ultratradizionalista Ungheria, che confina con l’Ucraina. Che è a un passo quindi. Fischiettando come se nulla fosse, se ci si perdona l’immagine.

La visita in Ungheria, tra l’altro negli stessi giorni in cui la Russia bombarda Kiev, ha perciò un solo significato: far capire che la Chiesa cattolica non giudica Mosca la sola colpevole dell’invasione. E questo, come dicevamo, è un ottimo assist verso Mosca.

Al Papa non sembra importare che i fatti indichino il contrario: che, per usare le parole di Francesco, se esiste un “solista della guerra” si chiama Russia.

Che senso ha tutto questo nell’economia della politica internazionale del Vaticano? Cosa guadagna da un atteggiamento filorusso? Probabilmente si spera nel miglioramento dei rapporti con la Chiesa ortodossa russa e nella possibilità – a dire il vero remota – di una apertura di un mercato della fede cattolica di centocinquanta milioni di possibili fedeli contro i 40 dell’Ucraina.

A molti osservatori sfugge il fatto che il Vaticano, nonostante i proclami ideali, come tutti gli attori politici, ragiona in termini di potenza, cioè di possibilità di espansione. Alla fin fine, per la Chiesa cattolica, visto che la potenza si esprime sempre in cifre, conta la crescita del numero di fedeli.

Si dirà, che il nostro ragionamento è brutale, perché materialistico, quindi incapace di tenere conto dei moventi ideali. Ma quale altra spiegazione dare al silenzio della chiesa? Punteggiato da involute quanto generiche condanne di una guerra in realtà causata da Mosca, sempre per ragioni di potenza?

Cosa pensare allora?  Diciamo come  alternativa alla nostra tesi.  Che la Chiesa non ha più una vera politica internazionale e che di conseguenza naviga a vista? Può essere.

Va però considerato, proprio sul piano dei moventi ideali, che l’anticapitalismo e l’antiliberalismo della Chiesa cattolica favoriscono i rapporti con quei paesi che condannano la fantomatica “deriva individualistica” dell’Occidente, tra i quali spiccano la Russia e l’Ungheria.

Budapest, pur facendo parte dell’Ue, non ne condivide i valori liberali, quasi quanto la Russia.

Del resto è noto che le alleanze più solide sono quelle che coniugano interessi e valori. E nel caso della Chiesa cattolica, che ad esempio da tempo guarda all’Africa, altro gigantesco mercato, girando le spalle alla secolarizzata  Europa occidentale, si può obiettivamente rilevare che i suoi interessi e valori la spingono verso i nemici dell’Occidente.

Pertanto papa Francesco è perfettamente consapevole di ciò che fa.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/04/28/il-papa-in-volo-per-lungheria-previsti-incontri-con-autorita-e-clero_36232fcd-df7a-43de-8b48-ce40ece28630.html .

venerdì 28 aprile 2023

Che cos'è il conflitto?

 


Si pensi ai giornali di oggi. Si discute, confliggendo, sul fatto che la Schlein ha ammesso di ricorrere a una consulente di immagine, una specie di stilista ( si parla di una “armocromista”, pagata profumatamente). Che tipo di conflitto è questo? In Ucraina, piovono missili su Kiev, e la cosa neppure fa più notizia. Che tipo di conflitto è questo? Il governo ha convocato il sindacati per il Primo Maggio, per discutere di misure economiche. I sindacati stanno affidando i coltelli. Che tipo di conflitto è questo? Infine in Sudan, due cricche militari si contendono il potere a colpi di armi da fuoco? Che tipo di conflitto è questo?

Come si può intuire all’ interno del “conflitto” – una costante o regolarità del comportamento politico (nel senso di ciò che si ripete) – si registrano livelli di intensità differenti. Due in particolare: quello sulla Schlein è verbale, come pure quello tra governo e sindacati. Quelli in Ucraina e Sudan sono fattuali. Nei primi ci si limita a esercizi verbali, che ovviamente portano a decisioni con conseguenza reali (si licenzia la stilista, si tagliano i bonus sociali). Nei secondi, si spara e muoiono persone.

E’ vero che in seguito al taglio di un bonus un assistito può suicidarsi, ma si tratta di una conseguenza indiretta, in qualche misura non prevedibile. Mentre i morti in seguito a un bombardamento sono prevedibili, ne varia solo il numero: parliamo perciò di conseguenze dirette.

Ieri un filosofo della politica si interrogava su “Repubblica” sul ruolo del conflitto in democrazia. E poneva, a dire il vero, una domanda oziosa: se la democrazia è conflitto, o se il conflitto fa male alla democrazia. Ne seguiva un lungo e noioso editoriale sul filo delle bolle d’aria in bello stile. Non approdava a nulla.

In realtà, ogni forma di governo, anche il più assoluto, non è mai esente da conflitti. L’aspetto interessante è quello della forma del conflitto. Se verbale, il conflitto non presenta pericoli per la conservazione della forma di governo. Invece se è fattuale tutto diventa complicato, anche dal punto di vista delle forma di governo, che può essere trasformata, mutata, abbattuta.

La vera questione è il contenuto del conflitto.

Una cosa è se dietro le parole si nasconde la ricerca della temporanea supremazia politica nei riguardi dell’avversario, per poi cedere il posto, nel quadro di un politeismo di opinioni e di alternanza politica.

Un’altra se invece dietro le parole si cela un esclusivo odio ideologico, monoteistico, che può sfociare nella distruzione permanente del nemico.

Se il contenuto del conflitto non è politeistico ma monoteistico il conflitto può distruggere la liberal-democrazia (preferiamo questa espressione, poi spiegheremo perché). Dal momento che il conflitto verbale, se ideologizzato (nel senso di una visione ideologica monoteista), tende a distruggere i portatori di concezioni differenti (politeiste), definite come opposte e pericolose perché, come dice la parola stessa, non può essere data altra concezione che quella monoteista. Insomma, non avrai altro dio, eccetera, eccetera.

Cosa vogliamo dire? Che quanto più una democrazia, talvolta anche a base liberale (quindi politeista, ecco perché parliamo di liberal-democrazia), radicalizza i conflitti verbali oltre una certa soglia, tanto più l’avversario tende a tramutarsi in nemico e il politeismo in monoteismo. E addio difesa delle minoranze… Principio che è il sale del liberalismo.

Esiste un altro rischio: che la stessa forma di governo, a sua volta, tenda a trasformarsi, in vista del conflitto, in una forma assoluta. Per capirsi anche una democrazia, soprattutto all’esterno può trasformarsi in monista (o monoteista)  rispetto ad altre forme di governo, tramutando gli altri governi in nemici. Come pure, può accadere all’interno, verso i propri i cittadini, quando si rifiuta ogni forma di dissenso, perché, in nome della maggioranza, principio democratico per eccellenza, si definisce il dissenso pericoloso per la democrazia stessa. A che serve dissentire, se la maggioranza ha sempre ragione?

Ripetiamo: il nocciolo duro di ogni democrazia è dato dalla sua componente liberale: ogni democrazia, se vuole essere tale, deve essere una liberal-democrazia. Capace di ricondurre ogni conflitto verbale all’interno di un politeismo politico, evitando di tramutare l’avversario in nemico.

Il che significa che quanto più una democrazia si fa monista tanto più cresce il rischio che il conflitto verbale si trasformi in conflitto fattuale, eccetera, eccetera. Il ruolo del liberalismo è impedire che ciò avvenga. Ogni vera democrazia, non ci stancheremo mai di ripeterlo, deve essere  liberale, quindi politeista.

Qui è interessante fare un’altra osservazione. Coloro che si oppongono all’intervento della Nato in Ucraina se la prendono con il presunto monismo liberale che vorrebbe imporsi nei paesi dell’Europa orientale. In realtà, la Nato, rivendica l’esatto opposto. Che cosa? Il politeismo liberale, messo in discussione dal monismo russo: una sorta di cesarismo democratico, temperato dall'assassinio politico, per parafrasare un celebre detto politico.

Mosca, quando si dice il caso, si dichiara paladina della democrazia in nome della schiacciante maggioranza del popolo russo che vuole ardentemente la guerra in difesa della democrazia. In realtà, il vero scopo è la distruzione del nemico politeista, quindi liberale, che rischia di minare il monoteismo democratico russo.

Come detto,   il conflitto, che vede la Nato e l’Ucraina da una parte e la Russia dall’altra, è di natura fattuale. Ma, nel quadro dei casi limite, che pure esistono, si tratta per l’Occidente di difendere la causa politeista liberale. In caso di sconfitta, ne andrebbe di mezzo il politeismo europeo e americano. Pertanto, talvolta il conflitto fattuale si rende necessario, soprattutto quando sono in gioco, come in questo caso due concezioni opposte: politeismo liberale e monismo democratico.

L’ideale, sul piano delle forme di governo, sarebbe dato dalla convivenza tra liberalismo e democrazia, ossia dalla liberal-democrazia, forma di governo capace di temperare, attraverso il politeismo, il monismo democratico delle maggioranze “schiaccianti”.

Ma la perfezione non è di questo mondo, per dire una banalità. Il che spiega i conflitti, anche fattuali, talvolta necessari. Purtroppo.

Carlo Gambescia

giovedì 27 aprile 2023

In Italia, Reza Ciro Pahlavi, un amico dell’Occidente, ma nessuno se n’è accorto

 


Invitiamo alla lettura di un' interessante intervista a Reza Ciro Pahlavi in questi giorni in Italia (*). Ne emerge una autorevole figura istituzionale, che, se ricevesse l’appoggio chiaro e forte dell’ Italia (e dell’ Occidente), potrebbe diventare il futuro monarca costituzionale di una terra sfortunata, che da quarant’anni vive nelle tenebre della reazione islamista.

I Pahlavi, il nonno e il padre di Reza Ciro, guardavano alla Turchia di Atatürk: modernizzarono l’Iran in sessant’anni, tra il 1925 e il 1979. Quella, sì, fu una vera rivoluzione. Anche con le minigonne a Teheran… Dopo di allora il buio.

All’epoca della “cacciata” dello scià, gli antioccidentalisti, i filosovietici e i non pochi neofascisti esultarono, con la complicità passiva della Dc, all’epoca onnipotente, con il Pci “eurocomunista” ma sempre filosovietico come privilegiato alleato di governo.

Una brutta pagina di storia interna e esterna

Reza Ciro aveva allora appena diciannove anni. Ricordiamo ancora con ribrezzo, su “Relazioni Internazionali”, rivista dell’Ispi, togatissima, gli articoli del generale Nino Pasti, suocero di Corrado Augias, sulla “rivoluzione iraniana”, in cui si parlava della natura pacifica degli Ajatollah. “Fiori a Teheran”, il titolo, se ricordiamo bene.

Con il regime tirannico, che ora potrebbe finalmente cadere, le cose in Italia sono cambiate? Difficile dire.

La visita di Reza Ciro non è stata coperta dalla stampa. Sulla rete, a parte gli attacchi dei siti filo iraniani (**), si veda il bel “servizietto” di “Formiche” (***), diretto dal figlio di Rutelli (in Italia è sempre un incrociarsi di famiglie…).

Praticamente si riprende, con la scusa del report obiettivo, la campagna di denigrazione di Teheran contro Reza Ciro, perché ricevuto da Netanyahu . Inoltre, per (eccesso) di par condicio, si riportano le proteste di Davood Karimi, presidente dell’Associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia.

Insomma, si fa passare l’idea che Reza Ciro non rappresenti che se stesso. Del resto sembra che Giorgia Meloni non abbia voluto riceverlo, neppure privatamente. Il fantomatico “Piano Mattei”, evidentemente, vale solo per i nemici dell’Occidente. Per inciso, Mattei, oggi deificato da Fratelli d'Italia,  fece buoni affari con il padre di Reza Ciro. Chiamala se vuoi memoria corta... O a singhiozzo.

Si parla infine di “un’apparizione” da Vespa. Vedremo.

Probabilmente, in Italia non si capiscono tre cose fondamentali.

1) Che l’Iran, o meglio la Persia, per liberarsi dalla dittatura fondamentalista, ha bisogno di tutto il nostro appoggio e ovviamente anche dell’Occidente.

2) Che il processo di costituzionalizzazione, democratizzazione e di ritorno della modernizzazione, in un paese con un ceto medio, fragilissimo, perché distrutto dalla statolatria della repubblica islamica, ha bisogno di figure politiche forti e ideologie altrettanto forti, come può essere quella di Reza Ciro, che ideologicamente si riallaccia alla bimillenaria tradizione della monarchia persiana.

3) Che il cambiamento di regime rafforzerebbe, e di molto, la posizione regionale dell’ Occidente e di Israele. Un fatto che potrebbe avere una portata storica.

E invece cosa accade? Che l’Italia snobba Reza Ciro, anzi si fanno i processi al padre. Oggi il nemico principale è la Repubblica islamica, non Mohammad Reza. Che, tra l’altro, era un amico dell’Occidente.

Insomma, l’Italia continua nei suoi giochetti levantini per non inimicarsi un regime agli sgoccioli, nemico dell’Occidente e di Israele.

Quando si dice come farsi del male da soli…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/iran-reza-pahlavi-il-regime-cadra-pronto-a-coordinare-la-transizione_LH62OSdcoh9bOmepOsdYP .
(**) Ad esempio qui: https://ilfarosulmondo.it/reza-pahlavi-visita-roma/ .
(***) Qui: https://formiche.net/2023/04/erede-scia-italia-polemica/ .

mercoledì 26 aprile 2023

Galli della Loggia e il partito “liberal-conservatore”

 


Il professor Galli della Loggia è nato nel 1942. Nel 1968, anno delle meraviglie, aveva ventisei anni. E lo visse da contestatore politico o comunque da simpatizzante. Oggi ne ha ottantuno. Ed è diventato conservatore. Di professione storico. È una figura nota, scrive sul “Corriere della Sera”. Ha un buon numero di libri all’attivo. Partecipa insomma, e con merito per carità, al dibattito pubblico e da posizioni di vertice.

Perciò restiamo di sasso, quando  per consigliare Giorgia Meloni, che – cosa tutta da provare – sembra puntare alla costruzione di un partito “liberal-conservatore”,  scrive banalità del genere.  Due in particolare.

La prima.

"Perché, insomma, una posizione conservatrice appare specialmente in Italia sempre fautrice di un che di retrivo, di ottusamente legato al passato?
La risposta è facile: perché nella società italiana il pensiero dominante è portato a giudicare sempre e comunque positivo ogni cambiamento, a salutare con soddisfazione ogni distacco da pratiche e principi del passato. Perché qui da noi occupa una posizione egemonica una narrazione progressista nella quale si riconosce la stragrande maggioranza della comunicazione, dei media e della cultura che ha più voce, inclusa quella cattolica".

La seconda.

"Il compito primo di un partito conservatore mi sembra che non debba certo essere quello di cercare di riportare in vita istituti e principi ormai morti perché figli di un’altra epoca (questo è semmai il mestiere dei reazionari). Al contrario, il suo compito dovrebbe essere quello di provare a cambiare la narrazione del presente sottraendolo per l’appunto ai tracciati convenzionali, alle vulgate progressiste, e mostrandone invece la realtà altamente problematica, spesso irrealistica" (*).

Insomma, un partito “liberal-conservatore” dovrebbe battersi contro l’egemonia della “cultura del cambiamento”. Che porta “a giudicare sempre e comunque positivo ogni cambiamento, a salutare con soddisfazione ogni distacco da pratiche e principi del passato”.

Intanto parlare di liberalismo conservatore è un errore. Perché l’esercizio della libertà non rinvia al contenuto dei valori. Per contro, il conservatorismo è una scelta che ricade sui valori.

Peraltro è vero che in Italia, prima dell’avvento del fascismo, esisteva una tradizione politica liberal-conservatrice, ma era tale, nel senso di una difesa dei valori liberali dall’assalto della democrazia ugualitaria, all’epoca rappresentata, dalla tumultuosa ascesa dei partiti, radicali, repubblicani, socialisti e anarchici. In qualche misura il liberalismo conservatore si definiva antigiacobino e anticomunardo.

In qualche misura Galli della Loggia, non sappiamo se intenzionalmente o meno, sembra rispolverare lo scontro, nella Francia della Restaurazione,  tra il partito della resistenza e il partito del movimento, o cambiamento: tra chi difendeva il costituzionalismo orleanista, censitario, come conquista finale, da difendere a ogni costo, e chi invece, aspirava al cambiamento, al suo sviluppo democratico, se non addirittura socialista e repubblicano. Alla fine Guizot, uomo politico e storico mai banale, che rappresentava il partito delle resistenza, cadde, travolto dalla rivoluzione del 1848.

Non è perciò un buon consiglio. Il problema è che Galli della Loggia, che culturalmente resta legato alla sua visione giovanile socialista, non è mai stato un liberale. Sicché, ricade sempre nello stesso errore: quello di sottovalutare il valore della libertà, fino al punto di inventarsi un non casto connubio politico, che oggi non ha più senso, tra liberalismo e conservatorismo, tra guizotismo e melonismo, per opporsi, come scrive, alla “cultura del cambiamento” della sinistra.

In realtà, la prima cosa da rivendicare resta la libertà. E in tutti i campi, dal culturale all’economico, dal sociale al civile, lasciando che la si interpreti secondo i valori personali. Può essere anche “cambiamento”? Certo, ma non è questo il problema. Il vero problema è quello di voler attribuire un contenuto, di qualsiasi genere (conservatore o progressista) alla libertà.

Attribuzione, cosa che Galli della Loggia come ex socialista non sembra tenere nel dovuto conto, che regolarmente culmina nella tentacolare e gelatinosa espansione del poteri dello stato. Che invece di restare neutrale (insomma di non essere conservatore né progressista), finisce per legiferare troppo sposando una delle due cause (conservatrice o progressista).

Di conseguenza, un partito liberal-conservatore, rischierebbe di fare la stessa fine del liberalismo guizotiano. Come dicono a Napoli, di “mantené ‘o carro p’a ‘a scesa”. E, si badi, Giorgia Meloni non ha nulla in comune con Guizot, ingegnoso uomo di stato e storico di grande valore.

Pertanto, se proprio si deve ricorrere a un’etichetta, si usi il termine, senza aggettivi, di (partito) liberale, ma, cosa importantissima, nel senso di neutrale rispetto ai valori: né di conservazione, né di progresso.

Qualche lettore malizioso potrebbe registrare una contraddizione tra la tesi della neutralità liberale dello stato qui sostenuta, e lo schierarsi al fianco dell’Ucraina aggredita dalla Russia, tesi da noi altrettanto vivacemente difesa.

In realtà, l’idea di stato liberale neutrale rispetto ai valori, non va sposata fino a provocare la distruzione, da parte del nemico, dello stato liberale neutrale rispetto ai valori (pardon per la ripetizione). Quando si parla di Occidente, e dei suoi valori, ci si riferisce anche a quello di libertà, che presuppone, a priori – si badi, a priori – l’esercizio stesso della libertà. Di qui la necessità di difenderlo anche con le armi.

In ultima istanza, anche se può sembrare paradossale, in Ucraina l’Occidente difende l’idea dello stato neutrale rispetto all’esercizio della libertà individuale. Libertà, ripetiamo, che non è conservatrice né progressista. Difende,  insomma,  un "a priori".

Una cosa in fondo facile da capire. Eppure un professore, come Galli della Loggia, che avrà sicuramente letto Guizot, sembra non capire.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.corriere.it/editoriali/23_aprile_25/i-conservatori-si-occupinodel-futuro-non-passato-e252a844-e392-11ed-89e2-97aae0cbce13.shtml .

martedì 25 aprile 2023

Festa della Liberazione, le bugie di Giorgia Meloni

 


La lettera inviata da Giorgia Meloni al “Corriere della Sera” (*) contiene una grossa bugia. Che il Movimento Sociale, cioè chi

“ dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie ragioni storiche, si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica. Una famiglia che negli anni ha saputo allargarsi, coinvolgendo tra le proprie fila anche esponenti di culture politiche, come quella cattolica o liberale, che avevano avversato il regime fascista […] È nata così – aggiunge – una grande democrazia, solida, matura e forte, pur nelle sue tante contraddizioni, e che nel lungo Dopoguerra ha saputo resistere a minacce interne ed esterne, rendendo protagonista l’Italia nei processi di integrazione europea, occidentale e multilaterale”. (*)

Non è una bugia da poco. Perché fornisce un’ immagine del Movimento Sociale che non corrisponde alla realtà storica. E che purtroppo, nella sua versione autentica, non edulcorata, continua a pesare su personaggi, che da quel partito provengono, come Ignazio La Russa. Come pure a livello di reazioni spontanee, “di pelle”, come nel caso del ministro Lollobrigida, che attinge, senza neppure rendersi conto, al complottismo del peggiore radicalismo di destra.

Qual è il punto? Che nella storia del Movimento Sociale, almeno fino a Fiuggi (1995), che però provocò la scissione dell’estrema destra neofascista, qualsiasi tentativo di costruzione di una destra democratica fu sempre prontamente respinto e sepolto.

Si pensi solo alla scissione di Democrazia Nazionale, negli anni Settanta, bollata come un vergognoso tradimento, come pure quella di Futuro e Libertà, partito capeggiato da Fini, un politico con limiti personali , che però aveva favorito la svolta di Fiuggi, consapevole, forse anche per smarcarsi da Berlusconi, della necessità di una destra democratica.

Per contro, Fratelli d’Italia è nato contro quel tentativo. Non si confondano le tattiche di governo, il vittimismo contro la sinistra, il desiderio degli italiani di essere lasciati tranquilli (come oggi scrive Veneziani), ossia la politica di Fratelli d’Italia, con la metapolitica di Fratelli d’Italia, nel senso di Peter Viereck, cioè la concezione del mondo di Fratelli d’Italia, che, culturalmente parlando, rinvia al peggiore “liquame culturale” della prima metà del Novecento, di cui il fascismo, per dirla con Bobbio, fu il collettore.

Altra menzogna politica, abbastanza sottile, diciamo reticenza, probabilmente su suggerimento di  Mantovano, che non è incolto. È vero che Augusto Del Noce, riprendendo le tesi di Noventa, scrittore, poeta, degnissima figura di socialista democratico, parlò di fascismo degli antifascisti. Ma si guardò sempre bene dal giustificare il fascismo dei fascisti. Anche Del Noce fu sulle stesse posizioni. Infatti, declinò l’ invito a partecipare ufficialmente all’ almirantiana “Costituente di Destra”, classico specchietto per allodole e maggioranze silenziose.

Come del resto rifiutò Malagodi, leader liberale del tempo. In realtà alla Costituente di destra parteciparono un paio di esponenti, clerico-fascisti, tra i più retrivi della democrazia cristiana. Ma quali esponenti cattolici e liberali…

Altra cosa sono le adesioni a Futuro e Libertà, partito che effettivamente guardava, seppure in modo imperfetto, a una trasformazione definitiva in chiave liberale di Alleanza Nazionale. E infatti, andò a fondo.

Invece di riflettere sull’immaturità liberal-democratica di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni continua a mentire politicamente sulla storia del Movimento Sociale, che con la destra democratica non ha mai avuto nulla a che vedere. Quanto ad Alleanza Nazionale, se la svolta di Fiuggi fosse stata recepita, non ci sarebbe stato bisogno di fondare Fratelli d’Italia. Dal momento che “Futuro e Libertà” era l’erede naturale della possibile evoluzione liberal-democratica di Alleanza Nazionale.

Così non è stato, e neppure poteva essere, perché nonostante gli sforzi di Fini, la destra di estrazione missina, non volle e non vuole saperne. Il che però, visto che agli italiani le carogne fasciste dure e pure, almeno nell’immaginario, non piacciono (un poco di antifascismo “pratico” è passato), costringe Giorgia Meloni ad arrampicarsi sugli specchi – mentendo ovviamente – di una destra democratica che non è mai stata. E per le ricordate ragioni metapolitiche. Se si vuole, culturali, di concezione del mondo.

Buona Festa della Liberazione a tutti.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/04/25/meloni-il-25-aprile-sia-un-momento-di-concordia-nazionale_b07e178c-1d21-40bd-a60c-5d4c66f05954.html .

lunedì 24 aprile 2023

Dalla Destra Storica alla destra di Fratelli d’Italia

 


Desideriamo segnalare l' articolo (*) di Lorenzo Castellani, ricercatore della Luiss. Articolo che sembra sposare la tesi, non freschissima, della continuità istituzionale dei governi italiani, e in più generale della classe dirigente, dall’Unità d’Italia a Giorgia Meloni (semplifichiamo il concetto, solo perché i lettori capiscano meglio).

Qui, con opportune citazioni,  riportiamo la  "sintesi" della sua tesi.

«Come abbiamo scritto in apertura l’Italia è un paese a macchia di leopardo, decentralizzato e plurale, senza una nobiltà di Stato e senza aristocrazie industriali-finanziarie, e per molti versi la formazione del suo establishment non segue le dinamiche degli altri paesi occidentali. Non ci sono università monopoliste o oligopoliste nella formazione dell’élite, non esiste un centro dominante che risiede nella Capitale, il centro politico e quello finanziario sono disaccoppiati (uno a Roma, l’altro a Milano), la ricchezza economica e produttiva è ancora molto radicata nelle province, non esiste una élite amministrativa legittimata e rispettata. Questo fa sorgere dei dubbi sull’esistenza stessa dell’establishment e ne determina ancor di più sulla sua compattezza. Contrariamente ad altre nazioni, insomma, non c’è un discorso comune portato avanti dalla classe dirigente, non c’è un epicentro fisico e istituzionale dell’élite. Ciò che si vede in televisione, si legge sui giornali, nei libri o si insegna nelle università, la cosiddetta egemonia culturale gramsciana che predomina in quei settori e che certamente non fa sconti all’attuale esecutivo, non è che la punta più visibile ed esposta di un mondo variegato e affatto compatto »

«Insomma, in un paese in cui in quasi ogni fase storica la politica è gravata da molti pesi – il debito pubblico, l’instabilità, il ritardo nelle riforme, classe politica poco legittimata, una modernizzazione sempre un passo indietro rispetto ai paesi più avanzati – un compromesso tra alcune porzioni del decentrato establishment italiano e il partito politico di turno, qualunque esso sia, lo si trova sempre».

«Tuttavia, forse, ancora di più è importante, in un paese a macchia di leopardo e incline all’adattamento politico, è la separazione tra il momento politico-elettorale e il momento del comando effettivo. È nella soglia di questi due ambienti che maturano gran parte dei cambiamenti che rendono l’Italia un paese che in profondità è molto più immobile rispetto ai tumulti della superficie. Un luogo dove assai raramente si consumano vere e proprie tragedie e rotture politiche, mentre dove molto spesso, al cambio della scena, si trova l’accordo con ciò che è appena divenuto passato. Che dunque non passa » (*).

Cominciamo con il dire che l’ unificazione italiana fu una specie di miracolo, frutto di contingenze politiche internazionali, (la politica estera avventurosa di Napoleone III) e nazionali (l’abilità di Cavour ). Di qui l’avvio zoppicante, ma che tutto sommato, aggiustando il tiro, in poco più di cinquant’anni, grazie proprio a una classe politica, con alto senso delle propria missione, a cominciare dagli uomini della Destra Storica, consolidò e modernizzò l’Italia. Altro che immobilismo.  

Insomma  andrebbe riscritta la storia dei Ricasoli, dei Sella, dei Minghetti, dei Depretis, dei Crispi, dei Giolitti: di  tutta  "quella" classe, politica e   dirigente (dalla destra alla sinistra, dai liberali ai protezionisti), che,  nel suo insieme, come potente  legato di valori liberali,  vinse una guerra, la Prima.

Cosa vogliamo dire? Che il fascismo non fu il portato di una politica del compromesso sistematico, che veniva da lontano, ma della guerra mondiale e della rivoluzione bolscevica, eventi catastrofici che aprirono un nuovo capitolo, quello della guerra civile europea, evento che cambiò radicalmente le coordinate politiche.

Se compromesso vi fu, riguardò la modalità della presa del potere, la superficie del fenomeno, non la devastante forza di trasformazione di un movimento politico nemico del liberalismo, quindi in netta controtendenza rispetto ai valori politici che avevano caratterizzato il Risorgimento e “quella” classe diremmo politica, prima che dirigente

A causa del fascismo la storia d’Italia cambiò direzione. Si interruppe un processo storico di modernizzazione liberale, politica, sociale ed economica, che lascerà spazio a una serie di ideologie e di pratiche, anche a livello di classe dirigente (quindi non solo politica) prima e dopo la Seconda guerra mondiale, fasciste, comuniste e cattoliche: tutte antiliberali. Con spazi, a livello di classi dirigenti, di servitù volontaria, spesso ben retribuita, prolungatisi fino ai nostri giorni.

Per essere più chiari: l’esatto contrario delle modernizzazione liberale. Una questione politica, inevasa, ma essenziale, di cui il governo Meloni non è che l’ultima incarnazione.

Come in una specie di gioco politico dell’oca, l’Italia sembra oggi essere ritornata alla casella iniziale, della grande mutazione datata ottobre 1922.

Ovviamente, se non si riconosce questa frattura, non resta altra strada interpretativa che quella della continuità sociale-istituzionale che vede nella cattiva formazione delle élite (politiche e dirigenti), non una conseguenza del rifiuto ideologico della modernizzazione liberale, dopo il 1922, ma una specie di onda lunga pansociologica, che tra l’altro non spiega la vera natura liberale dell’unificazione italiana. Che è vero che fu miracolosa, ma proprio questa sua “miracolosità”, mise alla prova, la qualità della classe politica liberale, che resse, e bene, fino al grande conflitto mondiale, quando cambiarono, per ragioni esterne, le regole del gioco politico, in chiave antiliberale.

Mosca, Pareto e Michels (che fra l’altro aveva studiato la socialdemocrazia tedesca non il liberalismo italiano), tutti e tre dotati di una gigantesca cultura storica, nell’elaborare la teoria sulla circolazione delle élite, guardavano non tanto alla storia d’Italia, ma alla storia del mondo, e in particolare a una regolarità metapolitica, che non è altro che una conferma dell'essenza della  politologia aristotelica (e machiavelliana) sulla necessità di una classe media diffusa e ben guidata da pochi e abili politici

Ciò che era riuscito, o stava riuscendo, in Italia alla classe politica liberale, come del resto ammise “dopo” lo stesso Mosca, grazie alla democrazia rappresentativa (e alla prodigiosa crescita economica postunitaria studiata da Romeo e Pescosolido).

Invece  la “Grande Guerra” rimise in discussione tutto: modernizzazione liberale e crescente compattezza del ceto medio.

I guai dell’Italia provengono dalla rottura fascista, che è un effetto di ricaduta del trauma bellico-bolscevico. Un fenomeno, ideologicamente cruento, che si prolungherà nelle grandi ideologie antiliberali post Seconda guerra mondiale.

Di questo, crediamo, si debba discutere, e non di presunte tare storiche e sociologiche. Ovviamente quanto più ci si allontana da una corretta interpretazione dell’unificazione italiana e del valore della classe dirigente liberale, tanto più si rischia di ricondurre la storia d’Italia dopo l’Unificazione nell’alveo della famigerata notte hegeliana, in cui non esiste più alcuna differenza tra la classe politica e dirigente liberale, quella fascista e quella postfascista.

Per dirla brutalmente,  tra la Destra Storica e la destra di Fratelli d’Italia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://legrandcontinent.eu/it/2023/04/23/giorgia-meloni-sei-mesi-di-tecnosovranismo/ .

domenica 23 aprile 2023

Il gioco delle figurine intellettuali

 


Ma quando finirà questo gioco delle figurine con gli intellettuali di destra e di sinistra? Ad esempio, per uno Scurati, dieci Buttafuoco… Mi  spiego meglio.

Oggi, Marcello Veneziani, sulla “Verità”, come un miracolato, ringrazia pubblicamente Giorgia Meloni, perché quest’anno al Salone  del Libro di Parigi sono presenti  alcuni intellettuali di destra (*), tra i quali, ovviamente, lui. Evidentemente, Veneziani, nel gioco delle figurine, al Ministero della Cultura, ha sostituto qualcun altro. Di sinistra. Scambio alla pari. Uno a uno. Non facciamo nomi.

Però non sempre è così. Per inciso, anche perché mi fa piacere segnalarlo, tra gli ospiti, nella speciale sezione dedicata all’Italia (“Passioni italiane”), spicca, tra i nuovi narratori, il nome di Sacha Naspini, già nella “scuderia” del Foglio di Gordiano Lupi. Uno scrittore brillante, maestro di neorealismo magico, con forti venature introspettive, mai disattento alla vischiosa realtà italiana, anche con puntate nel romanzo storico. I miei complimenti, anche perché non è portabandiera di alcun partito politico. Diciamo che per ora Naspini è l’eccezione che conferma la regola. E buon per lui perché lo merita.

E qui torniamo a Veneziani che ancora ragiona in termini di secolo breve, di intellettuale armato, di incasellamenti ideologici che però aprono le strade e rendono più dolce la vita. Di qui, i ringraziamenti pubblici per procacciarsi altri strapuntini mondani.

Si dirà che parlo male di queste cose, perché non invitato, eccetera. Quindi “rosicherei”.

A parte il fatto che a Palazzo Chigi non sono amatissimo, coloro che mi conoscono personalmente sanno che non ho mai creduto nel “presenzialismo”, nel glamour letterario, soprattutto quando politicizzato. Ricordo, quando a un tizio della Rai che mi chiedeva di intervenire non ricordo più in quale programma, risposi che non ero un tuttologo. Sconcerto e fine delle trasmissioni.

Probabilmente il gioco delle figurine politicizzate non finirà fino a quando la cultura, quella vera, non avrà imparato a tenersi alla larga dalla politica. A scrivere, liberamente, per il piacere di scrivere (ovviamente, si deve essere in grado), per il piacere della creazione in sé: può essere un’opera di letteratura o di storia, ma il punto fondamentale è quello di non preoccuparsi delle ricadute politiche e sociali.  Eventualmente, ma proprio eventualmente,  si deve  lasciare che la mano  invisibile dei libri, quelli buoni, faccia da sola...     

E i soldi? Sono importanti, ma non sono tutto. Guai, per dire una banalità superiore, a farsi comprare l’anima.

Sul punto, non secondario, rinviamo a un personaggio ricco invece di vitalità, di animus, di forza interiore: la bella, intensa ed eroica figura dell’architetto Howard Roark, protagonista archetipico, della Fonte Meravigliosa, forse il libro più bello e profondo di Ayn Rand.

Davanti, ai suoi giudici, nelle battute finali del romanzo, Roark rivendica l’importanza della creazione. Valore racchiuso non «[in] chi se ne doveva servire», dunque non nei «benefici che ne sarebbero derivati per gli altri», bensì in ciò che nell’uomo creativo «andava mantenut[o] al di sopra di tutto» .

Che cosa di preciso?

«La sua fede, la sua energia, il suo coraggio venivano dal suo spirito. E lo spirito di un uomo è la sua forza vitale, la sua fonte meravigliosa di vita, la sua personalità, il suo egoismo. Quell’entità spirituale che gli dà certezza, la consapevolezza di esistere. Una prima causa, una fonte di energia, il motore dell’anima. Il creatore vive per se stesso. E solo vivendo così egli riesce a raggiungere quelle conquiste che sono la gloria dell’umanità. L’uomo non può sopravvivere che attraverso il suo pensiero […]. Il cervello è un attributo individuale non è un patrimonio collettivo […]. Noi ereditiamo il prodotto del pensiero di altri uomini, non ereditiamo la ruota […], quello che noi riceviamo dagli altri è solo il prodotto del pensiero. La forza movente è la facoltà creatrice che precede questo prodotto come materiale, e se ne serve e dà origine al primo passo. Questa facoltà creatrice non può essere data o ricevuta, condivisa o acquistata. Appartiene agli uomini singoli, ai singoli individui. Quello che essa crea è proprietà del creatore. […]. Il creatore agisce. Il parassita acquista. Il creatore fa fronte alla natura da solo. Il parassita attraverso un intermediario. Scopo del creatore è la conquista della natura. Scopo del parassita la conquista degli uomini. Il creatore vive per il proprio lavoro. Egli non ha bisogno degli altri. Suo scopo principale è lui stesso. Il parassita ha bisogno di altri. Gli altri diventano il suo scopo principale» (**) .

Devo aggiungere altro?

Carlo Gambescia

(*) Qui il programma, con i nomi: https://www.aie.it/Cosafacciamo/AIEtiinforma/News/Leggilanotizia.aspx?IDUNI=eme0a1wpl3qsswdd3hhlluko3720&MDId=10597&Skeda=MODIF102-5606-2023.4.13 .

(**) A. Rand, La fonte meravigliosa, Corbaccio, Milano 2013, p. 669.

sabato 22 aprile 2023

Fascisti e antifascisti: totalitari dentro

 


Ne abbiamo già parlato: la storia dell’antifascismo in Italia non è una storia lineare (*). E neppure una bella storia.

Della polemica in corso, scattata come quei pupazzetti a molla nelle scatole dei giochi per bambini di un tempo, colpisce l’annuncio di La Russa sul suo 25 aprile a Praga per ricordare il sacrificio di Jan Palach: un giovane nazionalista boemo che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica.

Roma ha una piazzetta al Villaggio Olimpico, quartiere di impiegati, in centro, ma defilato, dove nel 1970, nel luogo che ora porta il suo nome, venne eretto, con il patrocinio di un giornale romano di destra, diciamo liberale, “Il Tempo”, un suggestivo monumento, che vede due braccia che si protendono verso il cielo tra le lingue di fuoco (*).

Negli ultimi anni le amministrazioni di sinistra, che si dicono liberalsocialiste, partecipano alle commemorazioni, mandando qualcuno. Non ci risulta invece, che negli anni Settanta-Ottanta, la famosa Roma delle notti culturali di Nicolini, leggiadro assessore di un partito comunista, allora duro e puro, inviasse qualcuno. Solo dopo il 1991 si affrontò la questione del decoro della piazza e del monumento. Fino a quel momento trascuratissimo.

Negli stessi anni del sacrificio del giovane Palach, o poco prima, anche i bonzi vietnamiti si davano fuoco per protestare. I bonzi però erano dalla parte giusta: quella di sovietici e maoisti. Si celebravano come combattenti per la libertà contro i fascisti a stelle e  strisce

Questo per dire, cosa è stato l’antifascismo in Italia: uno strumento ideologico, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, per attaccare ogni linea politica che fosse anticomunista e filoamericana, o meglio filo-occidentale e borghese. Ovviamente, anche i missini, gli eredi storici del fascismo, erano anticomunisti, ma al tempo stesso erano anche antiamericani e antiborghesi. Di conseguenza la guerra del Vietnam, soprattutto tra i fascisti terzomondisti, era interpretata come una guerra coloniale, quindi Palach e bonzi venivano accomunati. Mentre la direzione politica in doppiopetto, nicchiava: un colpo al cerchio e uno alla botte, come fa oggi Giorgia Meloni.

Pertanto, La Russa, se andrà a Praga come dice, vi andrà, per un altro scopo, quello di fare dispetto agli antifascisti che allora rifiutavano di accomunare i bonzi e Palach, perché così imponeva la tesi antifascista: Jan Palach era un fascista al servizio degli americani, perché era antisovietico e anticomunista. I bonzi invece erano antiamericani e perciò antifascisti.

Un film già visto insomma. Che tristezza.

In pratica, l’antifascismo, così come è stato strumentalizzato in Italia, sia dai fascisti che dagli antifascisti, ha impedito qualsiasi evoluzione politica nel senso di una destra e una sinistra normali. Dopo cinquant’anni La Russa vuole volare a Praga per fare dispetto ai post-comunisti che oggi, nonostante si dichiarino liberalsocialisti, continuano a guardare con sospetto al sacrificio di Palach e a imporre agli altri un’abiura ideologica, in senso antifascista, che essi hanno pronunciato in senso anticomunista in grandissimo ritardo. Parliamo di due ideologie illiberali: fascismo e comunismo. Sicché a sinistra la triste storia di Jan Palach si digerisce tuttora obtorto collo, mentre la destra la usa come il caricabatterie del cellulare.

A questo punto ogni polemica sulla Costituzione antifascista rinvia non al giusto conflitto tra libertà e totalitarismo, che ad esempio non vedrebbe nella guerra del Vietnam un conflitto coloniale ma una battaglia di libertà perduta dall’Occidente, come del resto scorgerebbe la stessa battaglia di libertà nelle sollevazioni nell’Est europeo fino alla caduta del comunismo.

La riprova, di quando detto, è nell’atteggiamento di fascisti e comunisti, pentiti o meno, nei riguardi dell’invasione russa dell’Ucraina, alla quale si rimprovera l’occidentalismo e la ricerca del benessere. Insomma di volersi imborghesire. In fondo a Zelensky, cosa si rimprovera? Per dirla con Carosone: “Tu Vuò Fa’ L’Americano”.

Questo atteggiamento, ripugnante e sbagliato, verso la libertà, alla quale si attribuisce un colore politico di comodo, rinvia ad altro. A una maledetta propensione totalitaria che accomuna fascismo e antifascismo: quella che nasce dall’odio mai sopito verso i valori occidentali, che pretende di riconoscere i meriti del fascismo e del comunismo nel contrastare la disgregazione borghese.

Chiunque coltivi il ricordo di ideologie totalitarie rifiuta le grandi rivoluzioni liberali che hanno distinto la storia dell’Occidente libero.

Poi, se proprio di costituzione si vuole parlare, la nostra, “la più bella del mondo”, a dirla tutta, ha un saldo impianto socialista, non liberale. Anzi, parleremmo, forse esagerando, di “fascio-comunismo, perché all’Articolo 1 invece di parlare di Repubblica fondata sulla libertà si parla di Repubblica fondata sul lavoro, una parolina magica che ritroviamo nelle costituzioni sovietiche e nella famosa Carta fascista di Verona.

Pertanto discutere della natura antifascista o meno della Costituzione è perfettamente inutile, soprattutto quando si continua ad essere totalitari dentro. A destra come a sinistra.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/prolegomeni-a-ogni-futura-metafisica-sul-25-aprile/ .    

(**) Qui: https://www.janpalach.cz/it/default/mista-pameti/roma