Articolo 18 e reintegro dei dipendenti
Parlare a vanvera
Come
capire quando un dibattito politico si allontana dalla concretezza per
scivolare verso l' astrattezza ideologica? Insomma, quando si parla (politicamente) a vanvera? Ci spieghiamo con un
esempio: la questione del reintegro del dipendente licenziato per ingiuste ragioni. O come si dice, senza giusta causa.
Certo, come comunemente si ritiene ( e si fa), il giudice può ordinare l’immediata
riassunzione in nome di questo o quel
principio di giustizia, ma -
ecco il punto - le leggi e sentenze vanno sempre calate nella realtà. Cosa
vogliamo dire? Che il dipendente reintegrato “per legge” , al suo ritorno in
azienda non troverà un ambiente di lavoro ideale. Nel
senso che il reintegro non potrà mai cancellare le ragioni psicologiche e
relazionali della frattura sociologica che ha condotto al licenziamento “discriminatorio”. Ancora peggio nel caso
di ragioni strettamente economiche,
perché, in quest’ultimo caso, il reintegro del dipendente reintegrato, rischia di
trasformarsi in costo aggiuntivo e quindi nocivo per l’impresa.
Perciò,
insistere sul reintegro significa privilegiare l’ideologia - non interessa se
giusta o meno - a scapito della realtà. E ogni volta che ciò
avviene, nei più diversi ambiti del reale, si sconfina nei cieli dell’astrattezza. In
questo senso il dibattito sull’articolo 18 è un esempio da manuale di politica
della logica. Detto altrimenti: di forzatura politica - meglio ideologica - della normale logica del reale che si compone di concreti rapporti (psicologici, sociologici,
economici) tra gli uomini. E pertanto di "conflitti" che non possono sparire con un colpo di bacchetta magica giudiziaria.
Ciò
non significa che il puro e semplice taglio di teste, accertato giudizialmente, debba diventare la regola. Per tornare con i piedi in terra - come in parte si è già compreso - basterebbe sostituire alla riassunzione obbligatoria la reintegrazione
in denaro del danno economico subito dal dipendente ingiustamente licenziato.
Carlo Gambescia
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