L’affaire De Magistris
Le ragioni di Gigino
Le ragioni di Gigino
di Teodoro Klitsche de la Grange
Checché se ne pensi, Luigi De Magistris non ha
tutti i torti nella vicenda giudiziaria e conseguentemente istituzionale che
l’ha coinvolto.
Non perché abbia ragione e sia stato condannato
ingiustamente e magari con malanimo nei suoi confronti: se l’(ex) Sindaco di
Napoli abbia commesso i fatti per cui è stato condannato e se gli stessi
costituiscano reati è cosa che riguarda la giustizia e per la quale
occorrerebbe esaminare gli atti processuali.
Cosa che non c’è tempo, ma ancor più interesse a
fare. Ciò malgrado come in tutti i casi simili (e sono tanti) da Berlusconi in
giù, l’opinione si appassiona prevalentemente intorno all’interrogativo: è
colpevole o innocente? È un reo o una vittima?
Quesiti che non c’è modo – sui mass-media - di
risolvere, ma tutt’al più di farsene un’idea – spesso falsata dai mezzi
d’informazione.
Quello che invece può essere (agevolmente)
valutato è il rapporto tra politica e giustizia, su cui, in questo sito sono
tornato più volte, in particolare laddove lo Stato è democratico, cioè laddove i
massimi livelli – ma anche i livelli politici intermedi – devono ottenere
legittimazione (e consenso) dal popolo, che lo esprime votando. Mentre la
giurisdizione è organizzata burocraticamente e i giudici non designati con
elezioni.
E, connesso a quello, il rapporto tra
compito-funzione della politica e quello della giurisdizione. La prima ha
quello di proteggere l’esistenza (e il benessere) della comunità, anche violando
le regole stabilite, la seconda di farle osservare.
I principi cui si uniformano sono diversi: nel
primo caso è di conseguire l’interesse generale; nel secondo di garantire
l’osservanza della legge.
A giudicare la conformità dell’azione dei
governanti al bene di tutti, possono
essere solo i tutti, cioè i cittadini, che, eleggendoli o non eleggendoli, ne valutano
l’operato e l’idoneità a conseguire quello; nell’altro sono funzionari, forniti
del “sapere specializzato”. Ciò stante come risolvere il problema che si
pone in modo decisivo se ad essere perseguiti dall’Autorità giudiziaria sono le
massime cariche dello Stato, quelle che danno alla comunità la capacità di
agire politicamente: Capo dello Stato, governo, parlamento, e in misura meno drammatica ove ad essere giudicati e
condannati sono i governanti democraticamente eletti degli enti locali,
Perché se un Sindaco può essere sospeso (cioè
costretto a non governare, malgrado eletto) quello che ne consegue è che il
consenso popolare che ha ottenuto (e tuttora si presume abbia) non ha carattere
decisivo, quello che invece compete
al collegio di tre giudici che l’hanno giudicato e, dato il meccanismo della
legge vigente, di fatto l’hanno anche allontanato dalla carica in cui era stato
intronizzato dagli elettori.
Scriveva Vittorio Emanuele Orlando polemizzando
con Leon Duguit, il quale riteneva che, ancorché condannato, anzi detenuto, il
politico dovesse continuare a svolgere le sue funzioni istituzionali che,
sarebbe stato bizzarro che il Presidente della Repubblica francese ricevesse lo
Zar in visita ufficiale non all’Eliseo, ma alla Santé.
Per cui il giurista siciliano riteneva che si dovesse
applicare il principio tradizionale dell’inviolabilità (irresponsabilità, non
coercibilità) delle autorità politiche apicali.
Quel dibattito, e la statura dei protagonisti,
faticano a trovare un adeguato paragone nelle vicende odierne. Per la legge
Severino si deve prendere per oro colato il verdetto di tre giudici – neppure
passato in giudicato, come per Berlusconi – che hanno opinato di mandare a casa
Gigino, e così di far governare Napoli da qualcun altro.
Anche se fatto nel perfetto rispetto della
legalità – ma Gigino non la pensa così – resta il fatto che in democrazia
quelle cariche e quelle funzioni sono designate dal popolo; non è un problema
di regole, ma di quis judicabit e
cioè: chi giudica che De Magistris deve governare? Gli elettori o i tre
giudici?
Machiavelli scriveva che “perché lo accusare uno
potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano
assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”, con ciò dubitando
dell’idoneità degli uffici giudiziari a giudicare i politici; e, se ne può
concludere che, l’inconveniente dei pochi,
può essere ridotto riservando ai pochi il giudizio sui reati e a tutti quello
sui risultati (conseguiti dal governante), senza meccanismi a “domino” per cui
le decisioni dell’uno si ripercuotono sull’altro.
Cioè proprio il contrario di quello che fa la
legislazione “severina” vigente.
Teodoro Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di
cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi
libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il
Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003),
L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013)
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