martedì 7 ottobre 2014

L’affaire De Magistris
Le ragioni  di Gigino
di Teodoro Klitsche de la Grange




Checché se ne pensi, Luigi De Magistris non ha tutti i torti nella vicenda giudiziaria e conseguentemente istituzionale che l’ha coinvolto.
Non perché abbia ragione e sia stato condannato ingiustamente e magari con malanimo nei suoi confronti: se l’(ex) Sindaco di Napoli abbia commesso i fatti per cui è stato condannato e se gli stessi costituiscano reati è cosa che riguarda la giustizia e per la quale occorrerebbe esaminare gli atti processuali.
Cosa che non c’è tempo, ma ancor più interesse a fare. Ciò malgrado come in tutti i casi simili (e sono tanti) da Berlusconi in giù, l’opinione si appassiona prevalentemente intorno all’interrogativo: è colpevole o innocente? È un reo o una vittima?
Quesiti che non c’è modo – sui mass-media - di risolvere, ma tutt’al più di farsene un’idea – spesso falsata dai mezzi d’informazione.
Quello che invece può essere (agevolmente) valutato è il rapporto tra politica e giustizia, su cui, in questo sito sono tornato più volte, in particolare laddove lo Stato è democratico, cioè laddove i massimi livelli – ma anche i livelli politici intermedi – devono ottenere legittimazione (e consenso) dal popolo, che lo esprime votando. Mentre la giurisdizione è organizzata burocraticamente e i giudici non designati con elezioni.
E, connesso a quello, il rapporto tra compito-funzione della politica e quello della giurisdizione. La prima ha quello di proteggere l’esistenza (e il benessere) della comunità, anche violando le regole stabilite, la seconda di farle osservare.
I principi cui si uniformano sono diversi: nel primo caso è di conseguire l’interesse generale; nel secondo di garantire l’osservanza della legge.
A giudicare la conformità dell’azione dei governanti al bene di tutti,  possono essere solo i  tutti, cioè i cittadini, che, eleggendoli o non eleggendoli, ne valutano l’operato e l’idoneità a conseguire quello; nell’altro sono funzionari, forniti del “sapere specializzato”. Ciò stante come risolvere il problema che si pone in modo decisivo se ad essere perseguiti dall’Autorità giudiziaria sono le massime cariche dello Stato, quelle che danno alla comunità la capacità di agire politicamente: Capo dello Stato, governo, parlamento, e in misura meno drammatica ove ad essere giudicati e condannati sono i governanti democraticamente eletti degli enti locali,
Perché se un Sindaco può essere sospeso (cioè costretto a non governare, malgrado eletto) quello che ne consegue è che il consenso popolare che ha ottenuto (e tuttora si presume abbia) non ha carattere decisivo, quello che invece compete al collegio di tre giudici che l’hanno giudicato e, dato il meccanismo della legge vigente, di fatto l’hanno anche allontanato dalla carica in cui era stato intronizzato dagli elettori.
Scriveva Vittorio Emanuele Orlando polemizzando con Leon Duguit, il quale riteneva che, ancorché condannato, anzi detenuto, il politico dovesse continuare a svolgere le sue funzioni istituzionali che, sarebbe stato bizzarro che il Presidente della Repubblica francese ricevesse lo Zar in visita ufficiale non all’Eliseo, ma alla Santé.
Per cui il giurista siciliano riteneva che si dovesse applicare il principio tradizionale dell’inviolabilità (irresponsabilità, non coercibilità) delle autorità politiche apicali.
Quel dibattito, e la statura dei protagonisti, faticano a trovare un adeguato paragone nelle vicende odierne. Per la legge Severino si deve prendere per oro colato il verdetto di tre giudici – neppure passato in giudicato, come per Berlusconi – che hanno opinato di mandare a casa Gigino, e così di far governare Napoli da qualcun altro.
Anche se fatto nel perfetto rispetto della legalità – ma Gigino non la pensa così – resta il fatto che in democrazia quelle cariche e quelle funzioni sono designate dal popolo; non è un problema di regole, ma di quis judicabit e cioè: chi giudica che De Magistris deve governare? Gli elettori o i tre giudici?
Machiavelli scriveva che “perché lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”, con ciò dubitando dell’idoneità degli uffici giudiziari a giudicare i politici; e, se ne può concludere che, l’inconveniente dei pochi, può essere ridotto riservando ai pochi il giudizio sui reati e a tutti quello sui risultati (conseguiti dal governante), senza meccanismi a “domino” per cui le decisioni dell’uno si ripercuotono sull’altro.
Cioè proprio il contrario di quello che fa la legislazione “severina” vigente.

Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013)

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