La monarchia, o “regime di Palazzo”, come la chiama Samuel Finer, ha millenni. Probabilmente è la più antica forma di governo e di stato. Se si vuole, sociologicamente parlando, di stato-governo. Detto questo, il discorso si fa più complesso, perché non è facile spiegare l’interesse registrato ovunque per l’incoronazione di Carlo III e Consorte. Soprattutto, oggi, in un mondo dove su circa duecento stati, le monarchie sono una quarantina (e quindici di queste, come stati membri del Commonwealth, hanno Carlo III come re, seppure im modo simbolico).
La monarchia nasce dal diritto della forza, o meglio delle armi: monarchia di spada e patriziato militare, con conseguenti conflitti di palazzo, violenti o meno, per la successione (il che spiega la definizione del Finer), hanno caratterizzato questa forma di stato-governo fino alla sua costituzionalizzazione ottocentesca.
Nel XIX secolo, semplificando, sulla scia delle riforme parlamentari britanniche del secolo prima, i monarchi continuarono a regnare ma non a governare. Si passò, di fatto (e in molti casi di diritto), dal re per volontà di dio al re per volontà della nazione.
Pertanto, dinanzi a cinquemila anni (con importanti eccezioni ovviamente: città-stato, repubbliche aristocratiche, mercantili, stati-governi teocratici, per indicarne solo alcune), che cosa sono due secoli di striminzite monarchie costituzionali (con poche monarchie ancora assolute) e di repubbliche a valanga (più o meno democratiche)?
Probabilmente nell’immaginario collettivo il re e la monarchia non hanno perduto l’antico fascino. Ovviamente rivisto e corretto alla luce delle necessità mediatiche del nostro tempo. Non più piani di conquista, ma uguaglianza ed ecologia. E soprattutto tanti pettegolezzi. Un chiacchiericcio, che se un tempo, era patrimonio dei circoli aristocratici, oggi è proprietà del popolo mediatizzato.
Si tratta di un fuoco di paglia, per lo più mediatico, o la monarchia tornerà di nuovo a ruggire? Non si può dire. Gli uomini, fin dai tempi delle teorie politiche di Platone (ma si potrebbe risalire ai popoli del Vicino Oriente antico), si sono divisi tra i sostenitori del governo delle leggi e i seguaci del governo degli uomini, e in particolare di uno solo.
Una tendenza, quest'ultima in particolare, di tipo antropologico-politico dura a morire. Ad esempio, come fu notato già suo tempo, il Presidente degli Stati Uniti, pur non potendo essere rieletto per più di due volte, gode dei poteri di un re costituzionale, in un paese – attenzione – che si proclama vero credente nel governo delle leggi.
Sotto questo profilo il cosiddetto presidenzialismo, soprattutto quando rimanda all’elezione diretta, nasce dall’immaginaria passione degli uomini per essere governati da un Re Leone (antichissimo simbolo monarchico), magari dotato di poteri taumaturgici. Come ancora si riteneva nel famoso secolo di Luigi XIV, celebrato da Voltaire in un’opera che ancora oggi si legge volentieri.
Per contro, il governo delle leggi viene giudicato, freddo, lontano, quasi un mostro gelido: una specie di gabbia giuridica che talvolta rischia, si dice, di soffocare gli uomini nelle spire della burocrazia giudiziaria e procedurale.
Del resto le critiche di fascisti e comunisti allo stato di diritto, ossia al governo delle leggi, si fondano sull’idea dell’uomo carismatico, solo al comando, una specie di padre, severo ma giusto, capace di intuire miracolosamente i desideri del popolo: una riedizione secolarizzata della monarchia. Di cui furono protagonisti alcuni feroci capi militari, chiudendo così il cerchio del patriziato militare, come Hitler, Stalin, Mao
Ovviamente Carlo III è un monarca costituzionale che regnerà senza governare: gli usi e costumi istituzionali britannici parlano chiaro al riguardo, quindi nulla a che vedere con le spietate figure appena ricordate. Però agli uomini piace il carisma, anche quando non c’è, come nel caso di Carlo III.
Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
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