mercoledì 10 maggio 2023

Elezione diretta. Il pericolo del caudillo

 


Prima liberiamo il campo dalle chiacchiere.Le riforme istituzionali non si possono fare insieme, perché sono divisive e di solito giocate dai partiti, gli uni contro gli altri armati, per agguantare il potere. 

Ovviamente, se alla fine, per sfinimento, si giunge al compromesso, lo si presenta come risultato di un percorso condiviso, un capolavoro storico, eccetera, eccetera. Quindi basta con le inutili mitologie.

In Francia, che ne ha avute cinque di repubbliche, ogni riforma costituzionale ha diviso il paese. Nella Germania di Weimar, sulla costituzione il paese si spaccò in due (nazisti e comunisti si coalizzarono contro). Nella Spagna postfranchista, dove pure le riforme della Transizione furono abbastanza condivise, si rischiò il colpo di stato.

Pertanto le riforme costituzionali, anche nel microcaso italiano dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, dividono sempre. Perché ogni partito teme di essere ingannato dall’altro, eccetera, eccetera.

Il vero problema è chi fa riforme, come, e da dove viene. Se i partiti sono affidabili, perché appartengono alla tradizione liberal-democratica e riformista, le divisioni come pure i contenuti non sono preoccupanti. La Francia, nonostante nel secondo dopoguerra sia passata attraverso due repubbliche, era ed è un paese dalle salde tradizioni liberal-democratiche. Anche la Spagna monarchica, nonostante tutto, negli ultimi quarant’anni si è ben assestata nella democrazia.

Invece, sotto questo aspetto, che un partito neofascista, come Fratelli d’Italia, proponga l’elezione diretta del Presidente della Repubblica è oggettivamente pericoloso. Chi tifava per Mussolini non può non aver mantenuto un temibile riflesso autoritario e populista. Anche perché, cosa sospetta, non si parla dei futuri poteri del Quirinale. In sé l’ elezione a diretta, a parità di poteri, non significa nulla.

Ora delle due l’una: o Giorgia Meloni è istituzionalmente e politologicamente anafalbeta, o ha un piano segreto per edificare la Repubblica Presidenziale, che, quando si dice il caso, è sempre andata forte in Sudamerica, la patria di certi signori, dalle maniere brusche, conosciuti sotto l’appellativo di caudillo.

Detto altrimenti, la Repubblica Presidenziale funziona dove esistono tradizioni liberal-democratiche (vedi Stati Uniti, anche se con il populista Trump rischiava di saltare tutto), dove persiste una mentalità autoritaria e populista, anche in uno solo dei partiti che si contendono il potere, la Repubblica Presidenziale rischia di tramutarsi in una caricatura della democrazia.

Dal quel che oggi si legge, la Schlein ha detto no perché esisterebbero problemi più gravi come la transizione ecologica, il carovita, la disoccupazione, eccetera. Che cima.

Mentre la Meloni, come osservato, si è limitata a proporre l’elezione diretta. E a glissare sulla “ciccia” (i poteri del futuro presidente eletto dal popolo). Molte parole si sono spese sulle procedure: commissione parlamentare sì, commissione parlamentare no. Fumo.

In realtà il problema è rappresentato dal rischio di ritrovarsi al Quirinale un La Russa con i pieni poteri. Un caudillo all’Italiana.

Per questa ragione, il Partito democratico, avrebbe dovuto inviare a Palazzo Chigi – certo, irritualmente – Gianfranco Pasquino, politologo di sinistra ma preparatissimo. Il solo che avrebbe potuto stanare Giorgia Meloni. E non una fanciulla, o poco più, che di politologia costituzionale non sa nulla.

Così purtroppo vanno le cose. È la sinistra stessa a farsi del male.

Carlo Gambescia

P.S. Nel caso, Fratelli d’Italia disporrebbe di un politologo “di area” all’altezza di Gianfranco Pasquino? No. Il penultimo è stato Carlo Alberto Biggini, allora però governava Mussolini,  l'ultimo Fisichella, con Fini, un professore che la sa lunga, che però, ora, ha il dente avvelenato… Tutto qui.

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