La democrazia secondo Antonio Polito
"Chicken run"
"Chicken run"
Oggi
sul “Corriere della Sera”, Antonio
Polito, con i suoi interrogativi,
rappresenta alla perfezione lo stato
confusionale in cui versa l’Italia che pensa e
scrive. E ciò che è peggio, senza rendersi conto delle
disastrose conseguenze di certe affermazioni (1).
Per
un verso, Polito enfatizza
la crisi della democrazia, dando
ragione ai populisti, perché l’ elettore, per come vanno le cose, vedrebbe regolarmente disattesi
i suoi desiderata.
Per
l’altro, si spezza una lancia in favore del liberalismo. Tutto bene, allora? No. Perché
Polito guarda al liberalismo democraticista, macro-archico, “motorizzato” di tradizione europea più che anglo-americana, dove invece si confida, giustamente, nel rule of law, che è altra
cosa.
Polito sottolinea l’importanza di un ritorno allo
stato di diritto - al governo delle leggi, insomma - per impedire che a governare siano gli
uomini, così pieni di difetti.
Vale la pena di richiamare la dotta distinzione tra rule of law e stato di diritto: il primo
è un prodotto sociale, spontaneo, una sorta di liberalismo vivente, frutto dell'interazione tra singoli;
il secondo, politico, qualcosa che scende dall’alto, a colpi di
maggioranze statalizzate, welfarismo nella migliore delle ipotesi, collettivismo nella peggiore.
Polito, come evidente, punta sul secondo. Tuttavia mettere insieme il
diavolo democratico con l’acquasanta liberale dello stato di diritto è impresa
assai pericolosa. Chi fa le leggi ? Il
Parlamento. Giustissimo. Però, con quali procedure? Della regola di
maggioranza. Pertanto, il nobile comando della legge, nelle democrazie a
suffragio universale, rinvia al più prosaico comando di maggioranze politiche, certo, regolarmente
elette, ma politiche. Quindi di parte. In
realtà, il vero problema, non è quello della disaffezione dell’elettore. Prima
però dobbiamo fare due
precisazioni.
In primo luogo, dal punto di vista liberale, il
voto non è un dovere, lo è negli stati totalitari ( o in via di divenirlo), dove c’è il partito unico e
vige la regola plebiscitaria. Nelle democrazie liberali, proprio perché tali, il voto è
un diritto, che in nome della libertà di coscienza, diritto ancora più sacro, può non essere
esercitato.
In secondo luogo, se tutti votassero, lo stato di diritto, di cui parla Polito,
crollerebbe dopo due minuti, per sovraccarico da domanda (politica). E comunque
sia, una politicizzazione intensa, rischia sempre di rendere tutto più difficile, tramutando
la lotta politica in conflitto tra fazioni, pronte a contendersi il potere a
colpi, anche proibiti, di maggioranze. Politiche.
Dicevamo che il vero problema non è la disaffezione
dell’elettore, bensì l’immaturità delle classi dirigenti, troppo democratiche, poco liberali. Con le quali Polito, con il suo editoriale democraticista, attesta di essere in assoluta sintonia.
Non
esiste il cittadino perfetto, che vuole partecipare. In realtà, la partecipazione, se e
quando c’è, rimane temporanea e parziale. La gente comune, vuole semplicemente
vivere la propria vita, prima in condizioni di sicurezza, poi di
libertà. Quindi il "buon tiranno" democraticista (imposto dalla "sovranità popolare") è sempre in agguato.
L’immaturità
delle classi dirigenti democratiche consiste invece nell’idealizzazione della
democrazia: nel far balenare davanti agli occhi dell' elettore il miraggio di una
democrazia perfetta, dove la corrispondenza tra i desiderata degli elettori e
le scelte di governo sia assoluta. Una cosetta così, facile, facile...
Non ci si avvede - o si fa finta - che proprio perché si ricorre alla regola di
maggioranza, una parte dell’elettorato, vedrà sempre disattesi i suoi
desiderata. Di qui come nota Polito, aggiustando il tiro, la necessità dello stato di diritto, delle
regole uguali per tutti. Tuttavia, quelle regole sono fissate da uomini contro
altri uomini e implementate da uno stato onnipotente che “motorizza” politicamente il diritto, malgrado le carte costituzionali, in cui confida Polito, enfatizzino il ruolo super partes dei legislatori (deputati e senatori).
Come
uscirne? Governare e legiferare il meno possibile,
quindi promettere il meno possibile:
Stato leggero come una piuma. Si deve lasciare che gli uomini perseguano liberamente
i propri interessi. Al riguardo, bastano
a sufficienza i codici civile e
penale. E
il Parlamento? “Ripopolarlo” di liberali veri e di socialisti riformisti. Mai promettere la "luna democratica". Poche parole, e quando occorre, molti fatti. Tutto
qui.
Più
si pigia sul pedale della democrazia,
più diventa difficile, se non del tutto impossibile, il mantenimento delle promesse e la conseguente
governabilità del sistema. Per dirla con Jorge Sánchez de Castro (2), si rischia di precipitare, se non ci si arresta in tempo, nel dirupo, come gli improvvisati piloti da corsa di “Gioventù
bruciata”, vittime della chicken run, “la corsa dei polli”…
Carlo Gambescia
(2) In spagnolo: “El juego del gallina”. Si veda la nostra recensione del libro di Sánchez
de Castro, El único paraíso es el fiscal (Isabor 2014): http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/01/il-libro-della-settimana-jorge-sanchez.html