giovedì 23 novembre 2017

La  democrazia secondo Antonio Polito
"Chicken run"



Oggi sul “Corriere della Sera”,  Antonio Polito,  con i suoi interrogativi, rappresenta alla perfezione lo stato confusionale in cui versa l’Italia che pensa e  scrive. E ciò che è peggio, senza rendersi conto delle  disastrose  conseguenze di certe  affermazioni (1).
Per un verso,  Polito  enfatizza  la  crisi della democrazia, dando ragione ai populisti, perché  l’ elettore, per come  vanno le cose, vedrebbe regolarmente disattesi i suoi desiderata.  
Per l’altro, si spezza  una lancia in  favore del liberalismo.  Tutto bene, allora? No. Perché Polito guarda  al  liberalismo democraticista,  macro-archico,  “motorizzato” di tradizione europea  più che anglo-americana, dove invece si confida, giustamente,  nel  rule of law, che è altra cosa.   
Polito sottolinea l’importanza di un ritorno allo stato di diritto - al governo delle leggi, insomma -    per impedire  che a governare siano gli uomini, così pieni di difetti.   
Vale la pena  di  richiamare la dotta distinzione tra rule of law e stato di diritto: il primo è un prodotto sociale, spontaneo,  una sorta di liberalismo vivente, frutto dell'interazione tra singoli;  il secondo, politico, qualcosa che scende dall’alto, a colpi di maggioranze statalizzate,  welfarismo  nella migliore delle ipotesi, collettivismo nella peggiore.                               
Polito, come evidente,  punta sul secondo. Tuttavia mettere insieme il diavolo democratico con l’acquasanta liberale dello stato di diritto è impresa assai pericolosa.   Chi fa le leggi ?  Il Parlamento. Giustissimo. Però, con quali procedure? Della regola di maggioranza. Pertanto,  il nobile  comando  della legge, nelle democrazie a suffragio universale,  rinvia al più prosaico comando  di maggioranze politiche, certo, regolarmente elette,  ma politiche. Quindi di parte. In realtà, il vero problema, non è quello della disaffezione dell’elettore. Prima però dobbiamo fare  due precisazioni. 
In primo luogo,  dal punto di vista liberale, il voto non è un dovere, lo è negli stati totalitari ( o in via di divenirlo),  dove c’è il partito unico e vige la regola plebiscitaria. Nelle democrazie liberali, proprio perché tali, il voto  è un diritto, che in nome della libertà di coscienza, diritto ancora più sacro,  può non essere esercitato.    
In secondo luogo,  se tutti votassero, lo stato di diritto, di cui parla Polito, crollerebbe dopo due minuti, per sovraccarico da domanda (politica). E comunque sia, una politicizzazione intensa, rischia sempre di rendere  tutto più difficile, tramutando la lotta politica in conflitto tra fazioni, pronte a contendersi il potere a colpi, anche proibiti, di maggioranze. Politiche. 
Dicevamo  che il vero problema non è la disaffezione dell’elettore, bensì l’immaturità delle classi dirigenti,  troppo democratiche, poco liberali. Con le quali  Polito, con il suo editoriale democraticista,  attesta  di essere in assoluta sintonia.
Non esiste il cittadino perfetto, che vuole partecipare.   In realtà, la partecipazione,  se  e quando c’è, rimane temporanea e parziale. La gente comune, vuole semplicemente vivere la propria vita, prima in condizioni di sicurezza,  poi  di libertà. Quindi il "buon tiranno" democraticista (imposto dalla "sovranità popolare") è sempre in agguato.  
L’immaturità delle classi dirigenti democratiche consiste invece  nell’idealizzazione della democrazia: nel far balenare davanti agli occhi  dell' elettore  il miraggio di  una democrazia perfetta, dove la corrispondenza  tra i desiderata degli elettori e le scelte di  governo sia assoluta. Una cosetta così, facile, facile...       
Non ci si avvede -  o si fa finta -  che proprio perché si ricorre alla regola di maggioranza, una parte dell’elettorato, vedrà sempre disattesi i suoi desiderata.  Di qui come nota Polito, aggiustando il tiro, la necessità dello stato di diritto, delle regole uguali per tutti. Tuttavia, quelle regole sono fissate da uomini contro altri uomini e implementate da uno stato onnipotente che “motorizza” politicamente il diritto, malgrado le carte costituzionali, in cui confida Polito, enfatizzino  il ruolo super partes dei legislatori (deputati e senatori).
Come uscirne? Governare  e legiferare il meno possibile, quindi  promettere il meno possibile: Stato leggero come una piuma. Si deve  lasciare che gli uomini perseguano liberamente i propri interessi. Al riguardo, bastano  a sufficienza  i codici civile e penale. E il Parlamento?  “Ripopolarlo” di liberali veri  e di socialisti riformisti.  Mai promettere la "luna democratica". Poche parole, e quando occorre, molti fatti. Tutto qui.
Più si pigia sul pedale della democrazia, più diventa difficile, se non del tutto impossibile, il  mantenimento delle promesse e la conseguente governabilità del sistema. Per dirla con Jorge Sánchez de Castro (2),  si rischia di precipitare,  se non ci si arresta in tempo,  nel  dirupo, come gli improvvisati  piloti da corsa  di “Gioventù bruciata”,  vittime della  chicken run,  “la corsa dei polli”…          

Carlo Gambescia 



(2) In spagnolo: “El juego  del gallina”.  Si veda la nostra recensione del libro di Sánchez de Castro, El único paraíso es el fiscal (Isabor 2014): http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/01/il-libro-della-settimana-jorge-sanchez.html