Il libro della settimana: Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni ( a
cura di),Minoranze negli imperi. Popoli fra identità nazionale e ideologia
imperiale, il Mulino 2013, pp. 470, Euro 34,00.
Nella Sociologia
degli imperialismi scritto
nel 1919, Schumpeter, di lì a poco ministro delle dissestate finanze
austriache, sostenne che capitalismo e militarismo, nonostante
tutto, non potevano andare d’accordo. A suo avviso, l’imperialismo
non rappresentava la fase suprema del capitalismo come invece aveva
sostenuto Lenin: imperi e imperialismi appartenevano al passato, in
quando stati-militaristi e burocratici. Un mondo dove regnasse la libera
concorrenza, come per larga parte del XIX secolo, non poteva non essere
sinonimo di progresso economico, di pace e crescente
benessere per tutti. E su quel mondo si doveva puntare...
Altrimenti, il burocratizzarsi del capitale,
momentanea deviazione indotta dal bellicismo, avrebbe potuto
spalancare la porta a continue avventure militari di
sapore reazionario.
Un atto di fede?
Forse. Comunque sia, in quel libro Schumpeter pose un
problema fondamentale: quello dell'ambiguo rapporto tra politica
(soprattutto internazionale), come lotta per l’egemonia e l’ economia (capitalistica)
quale perseguimento pacifico del benessere collettivo. A suo
parere, nel quadro delle egemonie imperiali, i cannoni finivano sempre
per prevalere sul burro: ogni impero, racchiudeva in sé, estendendosi
militarmente oltremisura, i germi del dissolvimento economico e di
conseguenza politico. Quindi - probabilmente così pensava Schumpeter -
capitalismo avvisato mezzo salvato...
Si dirà, tesi non
nuovissima. Ma, in ogni caso, attenta alle questioni concrete e nemica di
quella bolsa retorica sui concetti di impero e imperialismo, che
tuttora affascina utopisti di destra e sinistra.
Un lodevole realismo
storico (e politico) che ritroviamo in Minoranze
negli imperi. Popoli tra identità nazionale e ideologia imperiale (il Mulino), ricco volume
curato da Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni, pubblicato nella
prestigiosa collana di quaderni degli Annali dell’Istituto storico-germanico di
Trento/Fondazione Bruno Kessler.
Infatti, la
questione delle minoranze tra gli anni Ottanta dell’ Ottocento e la Primaguerra mondiale è
lo specchietto tornasole del problema schumpeteriano, perché permette di
comprendere l' impatto dello sviluppo economico sulla cultura dello
stato-nazione. E principalmente nei suoi risvolti di sfida all’ unità
imperiale, e dunque egemonica, in Germania, Austria asburgica,
Russia, Gran Bretagna, Impero Ottomano. Naturalmente, nel volume
sono affrontati anche gli aspetti ideologici del concetto di impero: si parte
da Roma (Elvira Migliaro), passando per Napoleone (Michael Broers), per
giungere, studiandone le trasformazioni (Brigitte Mazohl), alla vera e
propria analisi storico-tipologica (Andreas Fahrmeir, Guido
Hausmann, Federico Biagini). A dirla tutta, i saggi più avvincenti sono
quelli sulle minoranze in senso specifico: Impero Ottomano
(Marco Dogo) e Asburgico: gli Slovacchi ( Elisabeth Gasser),
gli italiani (Marco Bellabarba). Molto opportuna l'attenzione riservata
alla comunità religiose (Rupert Klieber). Non meno interessanti,
infine, le analisi dedicate alle burocrazie militari britanniche (Edward
M. Spiers) e asburgiche (Rok Stergar), quali fattori di integrazione a
doppio taglio, soprattutto nell’Impero Austro-Ungarico.
È possibile
individuare un denominatore comune? Sì. E quale? Come detto,
quello costituito dagli effetti di ricaduta della modernizzazione
economica, o per dirla con Schumpeter del ciclo capitalistico Un
fattore che interagendo con la modernizzazione politica mise
nell’angolo le élite tradizionali ( aristocratiche e militari), incapaci
di fare i conti con la democrazia politica ed economica dei moderni e
perciò di integrare le minoranze, se non ricorrendo, per
ricompattare, al puro espansionismo bellico: scelta che
condusse alla Prima guerra
mondiale e al conseguente dissolvimento degli imperi per
ragioni economiche e, diciamo così, per l'incapacità culturale di
pensare la pace, coniugando ideologia imperiale e
rispetto (istituzionalizzato) delle diverse componenti identitarie.
Il punto è ben colto
da Pombeni: « In definitiva gli imperi finirono in gran parte per essere
incapaci di trovare quei meccanismi di “invenzione della tradizione” (per usare
una celebre formula) che sarebbero stati necessari per fondere le fedeltà di
appartenenza comunitaria, nazionali o di altro genere che fossero, in identità
politiche imperiali, coniugandole però con una convinta accettazione del
nuovo orizzonte del costituzionalismo rappresentativo. Non per caso l’unico
contesto in cui questo connubio si realizzò in larga misura fu la Gran Bretagna (…). Ciò[comunque, ndr] non impedì che
in Gran Bretagna si verificasse l’unica importante sollevazione
indipendentista durante la guerra , la famosa rivolta di Pasqua a Dublino dal
24 al 30 aprile 1916, repressa draconianamente dagli inglesi, ma pur sempre con
il favore di un sentimento di lealismo bellico che impedì alla rivolta di
estendersi oltre i gruppi più radicali» (pp. 468-469).
E qui si torna, in
generale, al problema posto da Schumpeter: della guerra
come fattore aggregatore-disgregatore delle unità imperiali,
smodate consumatrici di risorse economiche e umane. E più
in particolare all' "evento" Prima guerra mondiale, quale
punto di svolta (negativo) per lo sviluppo capitalistico. Un
regresso economico-sociale poi approfondito da Schumpeter in Capitalismo, socialismo e
democrazia (1942). Parliamo
dell' "innesco" di un gigantesco processo sociale,
al servizio dello sforzo bellico, verso un’economia sempre
più centralizzata e burocratizzata. Un’economia di comando
capace però di provocare, per reazione, effetti centrifughi nelle
minoranze sottomesse, come avvenne tra il primo e
il lungo secondo dopoguerra, fino al punto di favorire, se
non determinare, la decomposizione degli imperi e la chiusura del ciclo
imperiale moderno.
Il che però, anche
dopo il 1991, non ha rappresentato la fine della lotta per l’egemonia tra
gli stati. Evidentemente, il progresso economico, a differenza di quel che
riteneva Schumpeter nel 1919, almeno da solo, non garantisce la
pace. L’ultima parola, costi quel che costi, sembra
spettare sempre alla politica. E alle nazioni più forti, le uniche capaci
di esercitare l’Imperium. Qualcuno lo spieghi a Barack
Obama.
Carlo Gambescia
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