Sociologia della crisi iraniana
Non siamo tuttologi, lo abbiamo ripetuto tante volte. Non possiamo perciò
improvvisarci, come fanno altri, in specialisti della "questione
iraniana".
Però proviamo lo stesso a dire qualcosa, sfruttando la nostra preparazione
sociologica.
In primo luogo, l’Iran, sta vivendo (e pagando) il "complesso
dell’accerchiamento". Ormai gli statunitensi, fedeli alleati di Israele,
sono ovunque, in Turchia, Iraq, Afghanistan... E, di regola, “’l’accerchiato”,
ossia il suo establishment, risponde radicalizzando le sue posizioni. E
soprattutto concentrando e verticalizzando il potere che già possiede. Ci si
ricompatta per fronteggiare il nemico esterno. E l’unico limite è costituito
dai livelli di coesione, iniziali e successivi, dell’establishment stesso.
In secondo luogo, a pagare le conseguenze del processo di risposta
"all’accerchiamento" sono sempre le opposizioni interne, in questo
caso i cosiddetti riformisti iraniani. Forze, che crediamo siano condannate a
cedere il passo sotto i colpi della repressione, a meno che il potere dominante
non si sgretoli dall’interno.
In terzo luogo, i meccanismi istituzionali dell’Iran contemporaneo, pur
fondandosi su istituzioni liberamente elette o quasi, non sono quelli di una
democrazia liberale occidentale: al massimo si può parlare di una repubblica
teocratica. Il che rende più facile l’opera dei repressori, che possono contare
su un rigido codice religioso del comportamento politico e su corpi
specializzati di repressori ideologici. Crediamo però, che nonostante
l’enfatizzazione dei media occidentali sugli studenti, eccetera, i cosiddetti
riformisti, non puntino a una democrazia di tipo occidentale, ma a un maggiore
pragmatismo, semplificando, alla “cinese”.
In quarto luogo - ma questa è un' osservazione politica non sociologica - la
crisi potrebbe ancora rientrare, salvaguardando per il momento l’indipendenza
iraniana, se riformisti ed establishment trovassero un accordo "passando
sulla testa" di Ahmadinejad, azzerando il suo progetto di
nuclearizzazione, inviso all’Occidente, a Israele nonchè, pare, ai riformisti
iraniani.
Tuttavia la radicalizzazione, profondamente legata al senso di
“accerchiamento”, che spiega se non giustifica la scelta nucleare iraniana, sta
andando nella direzione dello scontro frontale fra riformisti e radicali.
Scontro, crediamo, destinato a caratterizzare politicamente il 2010. E che alla
luce, della guerra in atto - perché di questo di si tratta - tra Occidente e l’intero
mondo di fede islamica, potrebbe tradursi nell’esca per un’aggressione
all’Iran, da parte di quelli che la propaganda fondamentalista definisce i
“Crociati dell’Occidente”: Stati Uniti ed alleati.
Perciò Ahmadinejad, con il suo oltranzismo, che qui da noi tanto piace agli
estremisti di tutte le risme, rossi e neri, rischia di trascinare verso la
rovina totale un Paese ricco, laborioso e colto. E per una sola ragione: perché
non ha forza sufficiente per tramutarlo in atti politici, e dunque credibilità,
né, pare, l'intelligenza politica per capire la debolezza, soprattutto esterna,
della sua posizione, spesso così scioccamente estremista da sfiorare
l'autolesionismo. In politica internazionale - e qui resta esemplare la
parabola novecentesca dell'hitlerismo - le dichiarazioni di fuoco, come quelle
sul nucleare iraniano, se non accompagnate da un pari "effettività"
militare in reale sviluppo, lasciano il tempo che trovano. Sotto questo aspetto
Ahmadinejad, un ingegnere, sicuramente non ha mai letto Ibn Kaldun, il
Machiavelli tunisino ...
In questo senso il dato politico reale, su
cui dovrebbero riflettere tutti gli iraniani, riformisti e radicali, resta uno
solo: che, in ogni caso, difficilmente all'Iran sarà data la possibilità di
diventare un potenza dotata di armi atomiche.
Ma ripetiamo, si tratta di un oltranzismo
per un verso legato alla natura (ma anche cultura) del presidente iraniano, per
altro alla “forza sociologica” degli eventi (il senso di “accerchiamento” e la
conseguente radicalizzazione). Di riflesso Ahmadinejad per alcuni - i suoi
sostenitori - è l’uomo della provvidenza mentre per altri - in particolare gli
avversari - una mina vagante.
Deciderà l’evoluzione della crisi.
Carlo Gambescia
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