Il libro della settimana: Guido
Caldiron, La destra sociale da Salò a Tremonti, Manifestolibri
2009, pp. 160, euro 15,00.
http://www.manifestolibri.it/vedi_collana_indice.php?id=520 |
E’ mai
esistita in Italia una destra sociale? Di sicuro è stata teorizzata. E qui
basti ricordare il lavoro intellettuale di Giano Accame. Uomo colto e
intelligente, fascista e missino, ma sempre disposto a parlare al mondo e
soprattutto ad ascoltarlo.
Ma nella pratica politica è esistita? Difficile rispondere. Anche perché sullo
sfondo della destra sociale italiana post-missina, quella di Alemanno, oggi
confluita con An nel PdL, continua a pesare come un macigno l’eredità del
fascismo di sinistra: quello sociale. E del suo controverso rapporto di
amore-odio con il capitalismo italiano. Di amore, seppure obbligato, del
fascismo regime (corporativo); di odio del fascismo movimento (socializzatore).
Eredità perciò impossibile da conciliare - se non nei termini di un’annacquata
destra sociale - con le politiche economiche di regolazione comunque non
statale, di Tremonti e Sacconi, ministri, per così dire, di sicura fede
capitalista.
Crediamo perciò che il primo compito di chiunque si occupi dell’argomento sia
quello di scrivere una storia della destra sociale, capace di individuare i
legami socioculturali, ma in termini di somiglianze e differenze, tra un
fascismo sociale, anticapitalista (nella sua “sinistra”), e una destra
liberalconservatrice, magari all’occasione Law
and Order, ma democratica e soprattutto filocapitalista, nel senso,
come notava Giano Accame, “di non voler tirare il collo alla gallina dalle uova
d’oro”.
Sotto questo aspetto il pur vivace e ben scritto volume di Guido Caldiron, La destra sociale da Salò a Tremonti (Manifestolibri
2009, pp. 160, euro 15,00), non coglie il punto. Perché guarda più alle
somiglianze che alle differenze tra fascismo, neofascismo postfascismo
“destro-sociale” da una parte, e destra liberalconservatrice, in versione
neo-liberista e neo-sociale (alla Tremonti) dall’altra. Ovviamente l’attenzione
per le differenze, almeno per quel che ci riguarda, non significa che debbano
essere sottaciute le spiccate frequentazioni dittatoriali e razziste del
fascismo e del neofascismo, tuttora vive in alcune lunatic fringes. Ma più semplicemente, sottolineare le
differenze può servire a ristabilire una verità storiografica: che il fascismo,
e in particolare quello di sinistra, era sicuramente anticapitalista, mentre
l’attuale PdL che raccoglie anche spezzoni sociali di postfascismo e di destra
liberalconservatrice è risolutamente filocapitalista. E legato a una visione
non dirigista dell’economia e della società, ma neppure totalmente
neo-liberista. E che comunque - ecco il punto - nulla ha in comune con il
corporativismo fascista né tantomeno con il “Manifesto di Verona”. Tra
fascismo, nelle due versioni, e PdL, insomma, non c’è continuità. Di mezzo c’è
una “bella signora” che si chiama democrazia…
Caldiron, prova a superare questo scoglio storiografico, unificando
concettualmente le varie destre italiane (liberalconservatrice, sociale e
leghista) sotto la categoria del neopopulismo, già di per sé troppo “all
inclusive”. Perché, tanto per dirne una, tale “etichetta” potrebbe essere
estesa anche a certa sinistra giustizialista. Ma Caldiron punta sul
centrodestra anche i riflettori, dalla luce probabilmente accecante, di una
teoria post-moderna della comunicazione politica, come quella dello storytelling. Teoria che scorge nel
potere mediatico il motore di nuova fabbrica del consenso di massa,
sapientemente azionata dalla destra “all inclusive” di cui sopra. La quale
userebbe una tecnica basata sulla creazione di stereotipi mediatici di facile
comprensione popolare: il “negro approfittatore”, l’ ”immigrato con il coltello
tra i denti”, eccetera. Ovviamente, a colpi di spot pubblicitari e di slogan
gridati da sparute, e tra di loro rissose, lunatic
fringes, il neo-populismo, nell’ottica di Caldiron, potrebbe
addirittura fare bingo. Nel senso di assolvere, tra le macerie di una rediviva
Repubblica di Weimar mondiale sconvolta dalla crisi economica e prigioniera di
una invasiva cultura mediatica, il ruolo che le numerose e feroci truppe
nazionalsocialiste di Hitler, usando ben altri forme di persuasione, svolsero
tristemente negli anni precedenti al 1933.
Lasciamo decidere ai lettori, sulla base delle loro preferenze ideologiche,
circa la consistenza teorica e metodologica di questo approccio.
Ma c’è un’altra questione, e di fondo. Caldiron non pare credere nella buona
fede dell’anticapitalismo fascista (di sinistra o meno), né, attenzione - cosa
ben più grave - del riformismo di destra, sociale o liberale, e probabilmente -
cosa di gravità assoluta - neppure di qualsiasi riformismo, anche di sinistra.
Semplificando al massimo, sembra che il pur colto giornalista di “Liberazione”,
sia rimasto fermo, suo malgrado, alla tesi terzo-internazionalista. Che
scorgeva nel fascismo (rosso o meno) e nel riformismo democratico a tutto campo
(dalla destra alla sinistra) due forme di dittatura capitalistica: la prima
manifesta, la seconda occulta. Ma così non si scivola forse nello storytelling, caro a certa sinistra? Di
un capitalismo gigantesco e terribile, che finisce per calpestare tutto e
tutti, come il King Kong cinematografico?
Anche qui, ai lettori l’ardua sentenza.
Carlo Gambescia
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