Il video dell’omicidio del povero nigeriano di Civitanova Marche è agghiacciante. Ma anche occasione, sempre sul web, per commenti sciocchi e inadeguati.
Ieri abbiamo affrontato la questione dal punto di vista di una sociologia della violenza (*), oggi affrontiamo un altro aspetto, altrettanto importante: quello della sociologia della passività.
Ci si chiede come mai non sia intervenuto nessuno dei numerosi presenti o “spettatori”. La risposta, sociologicamente parlando, non è così difficile.
In primo luogo, in episodi del genere il coinvolgimento affettivo è un fattore risolutivo. Si interviene in chiave scalare quanto minore, nello “spettatore”, è la distanza affettiva dall’ attore coinvolto, che magari sta avendo la peggio. Difenderò mia madre, mio fratello, un amico, ma non un estraneo alla mia cerchia sociale e affettiva. Sicché perfino il “conoscente” è a rischio di non intervento (tecnicamente si dice “intervento cooperativo”). Figurarsi perciò quando sono in gioco stereotipi di tipo razziale che non favoriscono la cooperazione.
In secondo luogo, contrariamente a quanto ritiene il senso comune, maggiore è il numero delle persone presenti – gli “spettatori” – minore resta la possibilità di aiuto. Dal momento che esiste un meccanismo di deresponsabilizzazione, che si fonda sul principio che qualcuno interverrà. Di conseguenza, nell’attesa che qualcuno intervenga, nessuno interviene.
In terzo luogo, esiste un altro meccanismo di tipo propriamente cognitivo tra l’azione in sé e il senso logico dell’azione. Le persone presenti ignorano le cause di ciò che sta accadendo. Di qui il venire meno del meccanismo identificativo (“Potrebbe accadere anche a me”) e del conseguente passaggio all’atto. Di riflesso, quanto più rapida è l’esecuzione della violenza, tanto più lo “spettatore” non ne comprende le cause. Oppure, crede di comprenderle, applicando, per fare prima ( il paretiano “bisogno” di risposte, anche mitologiche), degli stereotipi, che non sono altro che pregiudizi per tagliare corto, dal punto di vista cognitivo. Il che spiega, quando il pregiudizio inibisce l’azione, la passività dello “spettatore”.
Riassumendo, il colore della pelle del povero nigeriano ha rappresentato un fondamentale ostacolo di tipo affettivo. Nessuno si spende per uno “straniero”, figurarsi per un “negro” vittima dei peggiori stereotipi e pregiudizi sociali. Il senso di deresponsabilizzazione e l’incomprensione, o la cattiva e “stereotipizzata” comprensione delle ragioni di ciò che stava accadendo, hanno fatto il resto. Semplificando, la gente presente si è detta: “Il negro ne avrà combinata una delle sue”.
Sul web si insiste molto, gridando alla scandalo, sulle riprese con i cellulari. Non c’è da stupirsi. La violenza ha un suo fascino morboso è un moderno cellulare consente di riprodurla ad infinitum soddisfando questo bisogno.
Miracoli della tecnologia…
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/quando-si-vuole-tutto-e-subito/ .
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