Non abbiano alcuna preparazione di tipo naturalistico, geologico, eccetera. Quindi non possiamo stabilire da soli le cause della “tragedia della Marmolada”. Però, notiamo che, sulle cause, in particolare quelle profonde (formali, secondo Aristotele), gli scienziati sembrano divisi. Come del resto titubano, sull’effettiva dinamica, gli stessi esperti, i “praticoni” della montagna, guide, eccetera.
Comunque sia, ci rifiutiamo di entrare nel merito.
Tuttavia non si può non osservare, sociologicamente parlando, come gli ecologisti riconducano ormai tutto alla questione climatica, imponendo ai mass media una specie di linea politico-editoriale.
Ad esempio, si veda la prima pagina di “Repubblica” (*). Un atteggiamento che consiste nel terrorizzare la gente e nell’alimentare un’atmosfera di crescente sfiducia verso la società di mercato. Si potrebbe parlare d’impostazione catastrofista.
Qui va fatta un’osservazione sociologica importante: anche se vi fosse prova provata di una relazione causale tra capitalismo e fenomeni climatici, cambiare “modello di sviluppo”, come sempre più spesso si scrive con grande leggerezza, per puntare, secondo alcuni, addirittura sul “desviluppo”, imporrebbe misure sociali e politiche di tipo autoritario, se non addirittura totalitario.
Per due ragioni, una di tipo teologico-morale, una di tipo sociologico.
Teologico-morale nel senso che il concetto del salvare la Terra dall’ “opera distruttiva” dell’ uomo, non può che assumere valore morale assoluto. Sicché non può che conseguirne la necessità di usare qualsiasi mezzo, anche coercitivo, per perseguire un fine che rimanda allo schema teologico monoteistico della salvezza dell' anima, ovviamente, laicizzato, perché trasposto nella vita sociale.
Sociologico, perché il cambiamento totale del modello economico implica l’intervento dello stato, che, inevitabilmente, come prova la logica sociale delle istituzioni, più si estende, più comprime la libertà individuale.
Come si può capire, il mix tra buone intenzioni e processi istituzionali è nemico della libertà individuale. Ad esempio, la gestione fortemente autoritaria, per alcuni addirittura totalitaria, dell’epidemia, pardon pandemia, ne è forse l’esempio più recente ed eclatante (**).
Perciò si tratta di processi sociali, di tipo istituzionale, con effetti di ricaduta sociale molto pericolosi, se non devastanti. Che la politica dovrebbe maneggiare con cura a prescindere dalla finalità avanzata, nobile o meno (le famose intenzioni degli attori sociali). Soprattutto, e qui torniamo alla “questione ecologica”, quando la discussione scientifica non si è ancora conclusa. E del resto, mai si concluderà, se di logica scientifica si deve parlare. Certo, la politica vuole risposte sicure, deve prendere, si proclama, decisioni. Qui però fanno male non pochi scienziati a sostituirsi ai politici, che ne sono ben lieti, fornendo presunte risposte definitive per ogni questione.
Si rifletta su un punto fondamentale: a meno che non sia abbia una visione scientista, quindi superata, ottocentesca, della scienza, è noto a chiunque lavori oggi in ambito scientifico che la scienza è un sistema aperto in continua trasformazione, i cui risultati sono sottoposti al principio di falsificabilità.
Per fare un esempio, discutere intorno all' esistenza dio non è scientifico, perché rinvia a un atto di fede, che a sua volta rimanda a un dato soggettivo personale, estraneo al principio di falsificabilità. Una metodologia, quest’ultima, che impone invece l’uso concettuale di un sistema oggettivo di prove e controprove, condiviso, per così dire, oggettivamente dai diversi soggetti, nel caso del nostro esempio anche da coloro che non credono in dio. Di qui, ripetiamo, il valore metodologico, estensivo, se si vuole oggettivo, del concetto di falsificabilità, eccetera, eccetera.
Invece l’ecologista, come tanti altri ideologi, è come il credente che pretende di appoggiare la sua dottrina sulla fede in una scienza, capace di dare come dio risposte definitive. Chiunque abbia letto Popper sa benissimo che non è così: la scienza non è mai una dottrina.
Il che, ripetiamo, dovrebbe aiutare ad aprire gli occhi sulla natura ideologica dell’ecologismo. E invece, per ragioni inerziali, le ideologie, che forniscono stabilità, nel senso di presunte risposte “certe” ai bisogni mentali e comportamentali delle persone (tra i quali c’è quello di stabilità, se si vuole: bisogno di routine), tendono ad assumere natura dogmatica, portando lo sviluppo delle proprie conseguenze dottrinarie all’estremo. Di qui, ripetiamo, la natura inerziale dei fenomeni sociali.
Per dirla alla buona, bisogno di sicurezza e scientismo si spalleggiano a vicenda. Per gli studiosi di oggi (non tutti purtroppo), la scienza è l’ opposto della teologia, per la gente comune, invece, continua ad assolvere come nell’Ottocento, il ruolo di un sapere semireligioso in grado di dare risposte definitive. Una specie di dio in terra…
Per capirsi: a livello ideologico la gente continua a credere che la scienza abbia sempre una risposta definitiva. Per contro, gli scienziati sanno - o comunque dovrebbero sapere - che non è così. Per inciso, si dubiti sempre degli scienziati con tutte le risposte in tasca. Sono scienziati fermi all’Ottocento, alla divinizzazione della scienza. Si chiama anche, come detto, scientismo.
Insomma, come osservavamo all’inizio, sulla “tragedia della Marmolada”, in particolare sulle cause profonde, gli scienziati sono divisi. E deve essere così, se si vuole fare scienza, altrimenti si fa ideologia. Ecologista, nel caso.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.giornalone.it/prima-pagina-la-repubblica/ .
(**) Per un’analisi estesa rinviamo a Carlo Gambescia, Metapolitica del Coronavirus. Un diario pubblico, postfazioni di Alessandro Litta Modignani e Carlo Pompei, Edizioni Il Foglio 2021.
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