martedì 19 luglio 2022

Governo Draghi e partito della spesa pubblica, un’analisi strutturale

 


Esiste il partito trasversale della spesa pubblica che ha simpatizzanti a destra come a sinistra e tra le stesse imprese.

In tutta la storia della Repubblica non c’è stato un solo governo che abbia ridotto drasticamente la spesa pubblica, cioè le cosiddette erogazioni per produrre beni e servizi necessari al soddisfacimento di bisogni definiti pubblici. Per capirsi (scusandoci per la noiosa elencazione) parliamo delle seguenti voci di spesa:

a) spesa per servizi pubblici come le infrastrutture pubbliche e i trasporti;
b) spesa per i servizi pubblici forniti al cittadino direttamente dalla pubblica amministrazione ( governo, parlamento,ministeri, tribunali, comuni, regioni, aziende sanitarie, eccetera );
c) spesa per pubblica per l’ istruzione, la spesa assistenziale (sanità pubblica) e previdenziale ( spesa per il sistema pensionistico e relativi enti previdenziali quali INAIL, INPS, Casse di previdenza);
d) spesa per armamenti, difesa militare e sicurezza interna;
e)spesa per la ricerca e lo sviluppo scientifico-tecnologico (università, CNR, ENEA, INFN, INAF, INGV eccetera);
f) spesa per il finanziamento, gestione e manutenzione di beni artistici e culturali di proprietà statale;
g) spese per sempre possibili disastri, calamità naturali e ambientali;
h) spesa per gli interessi sul debito pubblico;
i) spesa per il servizio pubblico radiotelevisivo;
l) spesa nell’ambito della politica industriale ed economica.

In Italia la spesa pubblica ha raggiunto (2020) il 57.1 del Pil. Lasciamo stare le cifre (*). Cerchiamo invece di capire il meccanismo. Cioè il fatto concettuale.

Il Pil è dettato da un processo di scambio, dal momento che rinvia il valore dei prodotti e servizi realizzati all’interno di uno Stato per un determinato arco di tempo, di regola un anno.

Ora, asserire che la spesa pubblica è il 57 per cento del Pil significa, che sei scambi su dieci sono di natura pubblica e non privata. Ciò significa, che se lo stato facesse un passo indietro, lo “scambista privato” dovrebbe sostituirsi allo “scambista pubblico”.

Cosa vogliamo dire? Che per lo scambista privato italiano è molto più facile attingere indirettamente a quel 57 per cento, che produrlo direttamente con scambi privati. Il che significa che il partito della spesa pubblica unisce governi, imprese e i partiti. In sintesi, è molto più semplice spartire la torta pubblica che produrne una privata.

Di conseguenza, i governi della Repubblica, inclusi i famigerati governi tecnici (Ciampi, Dini, Monti, Draghi) “del rigore”, hanno sempre scorto nella spesa pubblica uno strumento di controllo sociale, quindi di potere. Sicché si sono sempre ben guardati dal fare un passo indietro: perché rimetterci? Più scambi pubblici più potere pubblico.

Al massimo si è cercato, attraverso strette fiscali, di pareggiare, ma in chiave sisifica, un bilancio dello stato, in realtà in continua espansione. Come pure, inevitabilmente, il prelievo tributario…

Insomma, ogni volta si è preferito alzare l’asticella della spesa pubblica, quindi del presunto pareggio, facendo pagare il conto ai contribuenti.

Si può dire che l’intera politica economica dell’Italia repubblicana è consistita nella redistribuzione della spesa pubblica, in termini di predominio dello scambio pubblico su quello privato, che, come detto, ha raggiunto, dal punto di vista del monte scambi,  il rapporto dei sei scambi su dieci.

Il governo Draghi non si è assolutamente sottratto a questo meccanismo. Anzi.

Il che spiega perché imprese, sindacati, partiti, non solo di sinistra, temono la sua caduta. Perché si incepperebbe, non tanto l’erogazione dei fondi europei, ma il meccanismo del sei su dieci. Insomma, sarebbe colpito a morte, seppure temporaneamente, il megapartito della spesa pubblica.

In questi giorni, si parla di elezioni e di possibile vittoria delle destre. Potrebbe cambiare qualcosa? In realtà, come provano per il passato le esperienze negative degli impotenti governi Berlusconi, siamo davanti a un meccanismo strutturale: il fatto concettuale di cui sopra.

Del resto portare il rapporto del sei su dieci a (mettiamo) due su dieci ridurrebbe inevitabilmente il Pil. Le imprese dovrebbero tornare a far da sole, partiti e governi perderebbe potere. Avremmo un rimescolamento delle carte economiche di natura epocale.

Certo, dopo una prima fase regressiva, una volta a regime, l’economia tornerebbe a produrre un Pil reale non drogato dalla spesa pubblica. Sarebbe come uscire da una specie di protezionismo di stato. Assisteremmo a una rinascita di un’economia vera, non parassitaria.

Però il punto è che la fase regressiva potrebbe imporre problemi di ordine pubblico. Il rischio resta quello della sindrome weimariana. L’inevitabile malcontento potrebbe produrre, si ritiene, colpi di stato e dittature.

In realtà, non è detto. Si tratterebbe di una sfida. Ma, come noto, le sfide, richiedono classi politiche e dirigenti all’altezza della situazione. Semplificando, in senso lato, parliamo di un partito nemico della spesa pubblica. Un partito che in Italia non esiste.

E questo è un altro problema. Il più grosso.

Carlo Gambescia

(*) Qui qualche cifra aggiornata sulla spesa pubblica: https://www.cgiamestre.com/vola-la-spesa-pubblica-questanno-sfonda-quota-mille-miliardi-di-euro/ . Sul debito pubblico si veda qui: https://italiaindati.com/il-debito-pubblico-italiano/ .

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