Quel che è successo a Civitanova Marche non è che un altro sintomo di una terribile malattia che sembra dilagare nelle nostre società: quella della violenza applicata dal forte sul debole.
Attenzione non parliamo della violenza simbolica e di altre forme di violenza istituzionale, così come sono definite dai venditori di fumo, ma pericolosi, che difendono l’uso della violenza difensiva, quindi giusta, contro le istituzioni e i suoi rappresentanti, che vede i forti opprimere i deboli, bla bla bla.
Ci riferiamo invece alla violenza brutale, fisica, immediata, insomma “applicata” alla soluzione di “problemi pratici”. Come ieri a Civitanova Marche: del forte contro il debole. Che ha un suo risvolto collettivo – anche se quanto stiamo per dire può sembrare eccessivo – nell’invasione da parte dei russi dell’Ucraina. Ma si pensi anche alla marcia su Washington, e relative devastazioni, dei sostenitori di Trump.
Assistiamo, purtroppo, a un interessante paradosso, più si parla di pace, di rispetto e tolleranza dell’altro, più si moltiplicano i casi violenza individuale e collettiva. Più si teorizza il rispetto dei deboli, meno li si rispetta.
Non disponiamo di accurate statistiche al riguardo, il nostro è un giudizio impressionistico: da vecchia guardia sociologica. Tuttavia crediamo che si possano osservare (il congiuntivo non è usato a caso) due tendenze: semplificando, da un lato i grandi discorsi sul valore di dover essere buoni, dall’altro l’essere sociale, come manifestazione di una violenza subitanea, spesso senza pari.
Si pensi alle foto che mostrano l’assassino di Civitanova Marche uccidere con le proprie mani l’ indifesa vittima, oppure alle foto che mostrano gli edifici civili, scuole e ospedali, distrutti dai missili russi e i poveri morti, invisibili, perché ancora sepolti sotto le macerie . Sono immagini inguardabili. Eppure rinviano a cose che accadono realmente.
Nell’epoca delle buone maniere, del pacifismo istituzionale, del lassismo giudiziario, si continua a uccidere senza tanti complimenti. Insomma, si pratica largamente l’uso della violenza, la più ripugnante, individuale e collettiva.
Cos’è che non va? Difficile dire.
Crediamo però che sul piano della psicologia collettiva, l’ azione violenta possa essere ricondotta alle grandi aspettative, inevitabilmente tradite, perché impossibili da realizzare, di un mondo finalmente pacificato, dove per usare la metafora biblica, “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà la paglia come un bue, ma il serpente mangerà la polvere, non faranno né male né danno (Isaia, 65:25, Sacra Bibbia, Cei).
In realtà, la sociologia insegna che in ogni società più le aspettative crescono più diventa difficile trattare psicologicamente e sociologicamente le reazioni dei delusi, degli stanchi di aspettare, dei violenti incorreggibili.
Certo, si crede tuttora che educazione e istruzione alla pace e ai comportamenti non violenti possano trasformare gli essere umani in angeli o in qualcosa che vi si avvicini. In realtà, è proprio ciò che si può chiamare violenza da deprivazione dell’ obiettivo che è all’origine di questa situazione.
La discrasia tra tempi sociali (rapidi) ed educativi, (lenti), come pure la frattura tra azioni istituzionali (legate ai tempi delle norme e delle burocrazie) e azioni individuali (condizionate da una dinamica velocissima dei desideri) impone tempi di attesa lunghi. Di qui, per tagliare corto, le reazioni di una violenza inaudita sia sul piano macro, come l’invasione dell’Ucraina e la marcia su Washington, sia su quello micro come nel caso di Civitanova Marche.
Dove probabilmente il colore della pelle della vittima ha giocato un ruolo essenziale nella violenta riappropriazione della propria identità, legata alla considerazione di superiorità razziale da parte del carnefice. Ora, chi ha ucciso vive in una società dove si predicano l’ uguaglianza e la bontà tra gli uomini, eppure…
Ammesso e non concesso, che se importunato, come dichiara l’uccisore, sarebbe bastato rivolgersi a un vigile, proprio per questa ragione siamo davanti a una reazione da deprivazione dell’obiettivo, già sbagliato in sé, della difesa della razza. Di qui il ricorso alla violenza diretta segnata da una ferocia rivoltante.
Si dirà che non basta predicare la pace e la tolleranza, ma che bisogna praticale. Ora, la pratica rinvia per un verso al processo educativo, per l’altro alla certezza della pena e al suo valore espiativo. Sembra però che nelle nostre società sul piano interno alla certezza della pena e al processo espiativo si sia sostituito il processo educativo e su quello esterno la credenza, sempre educativa, di poter trasformare nel tempo il nemico in amico.
Due cose impossibili, perché i processi di socializzazione, oltre a svilupparsi in tempi lunghi, rispetto alla dinamica dei desideri, confliggono con la sfera degli istinti, quindi della sopraffazione del forte sul debole.
Nonostante ciò, si continua a ritenere, in modo fideistico, che a poco a poco le persone, dal singolo cittadino ai capi di stato, capiranno e miglioreranno riducendo se non eliminando del tutto il ruolo degli istinti, per così dire, carnivori. Di qui quell’approccio permissivo che crede nella “conversione culturale” del prepotente. Che però, di fatto, finisce per consegnare mani e piedi legati i deboli ai forti.
Purtroppo, quel che è accaduto ieri a Civitanova Marche e quel che sta accadendo in Ucraina provano che l’educazione non basta. Soprattutto sul piano della funzione della pena e dello sviluppo dei rapporti internazionali. Ma questa è un’altra storia.
Piaccia o meno (a chi scrive non piace), esiste nell’essere umano un’ insopprimibile tendenza a rifiutare la mediazione culturale per rispondere solo ai propri istinti come cosa più naturale del mondo.
Istinti non solo di territorialità. Perché c’è dell’altro. Semplificando, si può dire che l’essere umano spesso vuole tutto e subito. E uccide.
Carlo Gambescia
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