Quanto più una maggioranza, in genere di coalizione, è estesa, tanto più i contrasti del rapporto tra maggioranza e opposizione tendono a trasferirsi al suo interno.
Di regola, soprattutto nei sistemi pluripartitici, distinti dai governi di coalizione, finisce sempre per nascere quel meccanismo definito di doppia opposizione ( o duplice, difficilissimo, equilibrio), all’interno e all’esterno della maggioranza di governo.
Per riferirsi al caso italiano, al momento l’opposizione esterna è rappresentata da Fratelli d’Italia, quella interna dal Movimento 5 Stelle. O comunque da quel che resta di esso dopo la scissione dell’ala filogovernativa, capeggiata da Di Maio.
Da cosa sono dettati i rapporti di forza? Per l’opposizione interna, la forza massima è rappresentata dalla sua insostituibilità. Ad esempio FdI, per ragioni ideologiche, mai potrebbe sostituire il M5S al governo. Sicché il “potere contrattuale” nei riguardi del governo Draghi del partito di Conte e Grillo resta determinante.
Determinante, ovviamente, rispetto alla volontà, di Draghi e Mattarella di tenere insieme l’attuale maggioranza e dalla possibilità, che rimanda all’intero arco partitico, di dover o meno preparare le elezioni in termini di ciclo della spesa pubblica. Per capirsi: la spesa pubblica cresce sempre prima delle elezioni e subito dopo, per poi diminuire intorno alla metà della legislatura. Si chiama ciclo politico-elettorale della spesa pubblica. E i politici democratici, se vogliono “durare”, ne devono tenere conto.
Si noti, infatti, che le proposte di Conte a Draghi, per non uscire dalla maggioranza, rimandano a una serie di provvedimenti (dal reddito di cittadinanza al bonus famiglie) realmente onerosi per la spesa pubblica ma potenzialmente rimunerativi dal punto di vista elettorale.
La relazione tra duplice equilibrio (in particolare all’interno della maggioranza) e ciclo della spesa pubblica (farla cresce per catturare voti) spiega chiaramente il gioco scelto da Conte: condizionare il governo e al tempo stesso, in caso di defezione, non scendere nei consensi, per poter così preparare adeguatamente il partito alle elezioni, come partito “del popolo” e – aggiungiamo – della “spesa pubblica”.
Come si può facilmente intuire le grandi coalizioni non aiutano il controllo della spesa pubblica.
Sebbene – cosa che non può non essere sottolineata – anche nei sistemi bipartitici, all’interno del partito di governo, conservatore o addirittura progressista, gli studi registrano l’esistenza di un subpartito della spesa pubblica. Ad esempio, Margaret Thatcher, ai suoi tempi, si scontrò e alla fine cadde, proprio per la crescente opposizione interna alla sua rigorosa politica economica e fiscale di tagli alla spesa pubblica, o comunque del suo finanziamento con tributi ad hoc. La stessa sorte segnò le vicende del New Labour di Blair alla prese con un’opposizione interna tenacemente welfarista.
Purtroppo, soprattutto negli ultimi settant’anni, a causa del grande sviluppo del welfare state, la vita delle democrazie pluripartitiche e bipartitiche si è trovata a dover dipendere dal ciclo elettorale della spesa pubblica. Il che non significa che i regimi monopartitici, autoritari o addirittura totalitari, non debbano affrontare lo stesso problema.
Il punto è che i regimi monopartitici, non dovendo rendere conto agli elettori, possono tagliare o dirottare la spesa pubblica ad esempio verso l’industria degli armamenti, penalizzando l’industria del beni di consumo, come nella Russia Sovietica e post-Sovietica.
Purtroppo, e dispiace dirlo, la scelta di fondo non è un granché: da una parte Conte e Draghi, dall’altra Bréžnev e Putin. Detto altrimenti: tra il pluripartismo spendaccione e il monopartismo bellicista.
Per ora, tertium non datur.
Carlo Gambescia
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