Si critica giustamente – per primi noi – la mancanza di senso di responsabilità di Conte, che pensa alle elezioni puntando su una linea politica non più di governo ma di lotta.
Senso di responsabilità significa sostenere il governo in carica approvando le misure già discusse eccetera, senza andare a guardare troppo il pelo nell’uovo nel nome di una faziosa logica di partito. Si chiama difesa bene comune. Quel bene comune di cui il M5s sì proclama da anni l'unico portabandiera.
Fin qui Conte. Ma a dire il vero anche l’atteggiamento di chiusura di Draghi non aiuta. Questo voler lasciare nonostante ci siano i voti per continuare anche senza i pentastellati: a braccio, 204 al Senato, maggioranza 158; 456 alla Camera maggioranza 316. Il che sembra comprovare una mancanza di senso di responsabilità pari a quella di Conte.
Del resto, se a destra gli estremisti di Fratelli d’Italia sono fuori del governo fin dall’inizio, a sinistra l’uscita degli estremisti del Movimento Cinque Stelle, farebbe, diciamo, pari e patta.
In realtà, Draghi, come ogni tecnico “prestato alla politica”, è totalmente incapace di mediare le esigenze di partiti differenti. O meglio non ha alcun interesse, perché considera la mediazione politica una perdita di tempo. Un cosa è mediare sulle cifre tra banchieri, quindi tra tecnici, un’altra sulle parole tra politici appesi ai sondaggi.
Di qui, la sua decisione, a prescindere dai numeri in Parlamento, di fare un passo indietro: non ne può più di sprecare il proprio tempo.
Evidentemente, una volta trascorso il momento eroico della guerra all’epidemia, pardon alla pandemia, e complicatosi il quadro politico internazionale, con il rischio di una cronicizzazione della guerra russa in Ucraina, Draghi, da buon tecnico si rifiuta di sprecare energie per scopi che reputa sperequati rispetto all’impegno che la consecuzione imporrebbe .
Perché? Qui avanziamo una spiegazione tipologica. Che rinvia non al Draghi uomo ma al Draghi tipo sociologico.
Il tecnico, come tipo sociale, soprattutto se in posizioni di potere, quindi un “tecnocrate”, non può che applicare il principio del minimo sforzo. Detto altrimenti, inutile moltiplicare gli sforzi se lo scopo non ripaga la fatica. Pareto, che probabilmente Draghi ha letto (il che però non significa automatico imprinting intellettuale, il tipo sociale rinvia alla natura imitativa dell’ambiente professionale), teorizzò questo principio nel suo Corso di economia politica, estendendolo ai tentativi (inutili) di modificazione della curva ripartizione dei redditi (*).
Di conseguenza la maggior parte dei risultati che ci proponiamo di conseguire dipende sempre da numero ristretto di fattori. Sulla scia dell’analisi paretiana, estesa però al comportamento sociale, si parla di un rapporto standard 80/ 20 per cento. Cioè che l’80 per cento di ciò che perseguiamo nelle nostre attività deriva soltanto dal 20 per cento dei fattori impiegati. Quindi inutile affannarsi in tentativi di modificare ciò che non si può modificare.
Si tratta di un aspetto sociologicamente molto interessante. Crediamo di riflessione, soprattutto per coloro che sostengono la tesi della superiorità della tecnici sui politici.
In realtà, se i politici, spesso sprecano le proprie forze per conseguire scopi parziali, se si vuole di parte, come nel caso di Conte, i tecnici, come Draghi, tendono a ridurre gli sforzi commisurandoli ai risultati, scelte che però finiscono per essere altrettanto parziali.
Per quale ragione? Perché rispecchiano valutazioni di parte, certo “tecniche”, ma di parte. Nel senso che il principio del minimo sforzo privilegia la via più breve, tecnicamente, la migliore dal punto di vista del calcolo costi-benefici. Che però in politica non sempre è la migliore. Ad esempio se Churchill avesse accettato nel 1940, dopo la caduta la Francia, in termini di calcolo costi-benefici, quindi in tempi brevi, se non immediati, le offerte di pace di Hitler avrebbe di certo risparmiato le vite di molti civili britannici, ma a che prezzo rispetto ai tempi lunghi ?
Diciamo perciò che il principio del minimo sforzo può avere un suo valore a breve ma non a lungo termine. Qui risiede la differenza tra la visione del politico e del tecnico. Ovviamente, pensiamo a politici, se si vuole a tipologie di politici, come Churchill e Cavour, capaci pensare a lungo termine. Nulla a che vedere con figure, anche qui, se si vuole, tipologie sociali, ma demagogiche, come Giuseppe Conte, che non vanno oltre le prossime elezioni.
Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
(*) Vilfredo Pareto, Corso di economia politica (1896-1897), a cura di G. Palomba, nota bio-bibliografica di G. Busino, Utet, Torino 1971, pp. 967-1098 (Libro III, “La ripartizione e il consumo”).
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