sabato 14 novembre 2015

Parigi. Strage nel  teatro, kamikaze allo stadio
Ambasciatori, maestri e galera non bastano più



I morti non sono  quasi  tremila, come nel 2001,   ma l’attacco terroristico in piena Parigi, subito rivendicato dall’Isis, può essere paragonato a quello alle Torre Gemelle.  I tragici fatti  di ieri sera, ultimi di una catena di attentati anche in Medio Oriente,  impongono una riposta forte, come quella degli Stati Uniti, allora. Con  una variante: contro le basi del nemico vanno usate armi non convenzionali, in particolare, pensiamo al pendant tattico.   
Il nemico si può sconfiggere solo usando una forza militare superiore, che abbia due finalità in ordine scalare: 1) la deterrenza, che necessita però  di una minaccia, fondata sull’esempio di un precedente durissimo, meglio se terrificante; 2) la soppressione del nemico stesso, quando proprio non vuole capire, mediante l’annichilimento militare.     
Ne sarà capace la Francia, che pure dispone della triade?  E la belante Europa?  Che già, dopo poche ore, stando alle varie dichiarazioni, rispolvera il solito prudente approccio diplomatico, pedagogico  e poliziesco: ambasciatori  di buoni affari,  maestri e galera...  Sugli Stati Uniti di Obama - che pure potrebbero - sospendiamo il giudizio. Putin, invece, avrà sicuramente già preso in considerazione l' ipotesi.  Ma è isolato.  Qui invece occorre  una grande alleanza politico-militare, come contro Hitler. Quanto alla Francia siamo pessimisti.  De Gaulle, avrebbe agito già da tempo, altro che Hollande... Anche per evitare - non stiamo ironizzando  - derive OAS.  L’inevitabile,  fai da te… La guerra civile…  Ovviamente sul suolo francese.  Ma sarebbe solo l'inizio.  Hobbes docet.  
Però, come non ricordare,  nella gravità del momento, anche un  vecchio leone come  Winston Churchill, altro che Cameron....  Si legga  il suo   vibrante e realistico discorso a tutto campo del 13 maggio 1940, quando Hitler vinceva ovunque.  Un  capolavoro di buona   retorica politica,  ma soprattutto un perfetto esempio dal punto di vista del senso della realtà e della comprensione della pesanteur  del politico.  Nel senso - ci spieghiamo meglio -  di pensare la politica, politicamente. Insomma, di accettare le sue sfide, come quando il nemico ci indica come tali, ignorando qualsiasi specie di nostra benevolenza.  Ascoltiamolo:

«Non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra; nostra meta, la vittoria […]. Voi mi domanderete: Ma, qual è la nostra politica? Io vi rispondo: batterci per terra, in mare e in cielo. Guerra con tutta la nostra forza e tutto lo spirito battagliero che Dio può infonderci. Batterci contro una tirannide mostruosa, non mai superata nei tragici annali dell’umana criminalità. Questa è la nostra politica. Quali i nostri scopi? Voi mi domandate. Posso rispondervi con una sola parola: Vittoria, vittoria ad ogni costo, vittoria nonostante ogni terrore; per lunga e dura che possa essere la strada; perché senza vittoria non sopravviveremo. [...] Ma io m’assumo il mio compito con baldanzosa speranza. Sono certo che la nostra causa non sarà abbandonata dall’uomo. Ora è il momento in cui mi riconosco il diritto di chiedere l’aiuto di tutti e dico: Su, dunque, marciamo tutti insieme unendo le nostre forze» (*)
  
Ovviamente, il rischio è quello della spirale.  Che non va sottovalutato, ma neppure enfatizzato.  Del resto, siamo in guerra. A brigante, brigante e mezzo.  
Come  hanno insegnato Charles  de Gaulle e Winston Churchill.

Carlo Gambescia

(*) W. Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1961, Vol. II, La loro ora più bella, pp. 36-37

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