giovedì 26 novembre 2015

Isis, Siria e dintorni
Come può una società
divertentistica fare la guerra?
Può, ma solo se costretta…



La grave situazione in Medio Oriente impone al sociologo alcune riflessioni sulla natura delle trasformazioni avvenute nelle nostre società occidentali in relazione alla “pratica” della guerra. E trarne le conseguenze. Procediamo.
1) L’evoluzione culturale delle società tardo-industriali ha progressivamente  eroso la  credenza nella legittimità dell’uso della forza. Dal momento che  pacifismo e umanitarismo sono i valori-base sui quali esse sono fondate.
2) A ciò si è  associato  il declino dello spirito guerriero, declino tipico delle società divertentistiche di  massa,  fondate su piani di vita ludici, individuali e collettivi. Di qui, sul piano sistemico,  la sua sublimazione (si pensi a riti del tifo sportivo, ma anche alle  eruzioni  di violenza negli stadi) e la sua  conseguente delimitazione  alla repressione della  devianza (dalla criminalità allo stesso tifo violento).      
3)  Sulla base di questi fattori le nostre società possono essere definite post-militariste, o debellicizzate,  quindi contraddistinte, sul piano normativo,  dalla caduta di prestigio di tutto  ciò (persone, valori, atteggiamenti, comportamenti) che afferisce all’universo del conflitto armato generalizzato. 
Ora, la guerra può essere cancellata eticamente,  culturalmente, religiosamente, ma non sociologicamente. Perciò, dal momento che la verità dei fatti (sociologici) si vendica sempre (poiché il fenomeno bellico ha andamento fluttuante), prima o  poi il nemico, come sta avvendo, può bussare alle nostre porte.  Quindi  il punto è: come può una società post-militarista entrare in guerra?  Cioè fare una scelta contraria al proprio universo valoriale  e comportamentale?  Non può. Il che spiega, da parte del politico post-militarista, il temporeggiamento ed eventualmente, quando proprio non se ne può fare a meno,  il ricorso alla medicina bellica ad alta  tecnologia: che riduce o evita perdite di vite umane, difficili da gestire politicamente dal punto di vista (normativo)  del pacifismo e dell’umanitarismo.   
Inoltre, esiste un altro problema, non da poco,  legato alle tecniche di conservazione del potere da parte delle élites dirigenti. Ci spieghiamo  subito.  
Lo stato di guerra non può non influire sulle metriche divertentistiche - ad esempio in termini di programmazione dei  singoli piani vitali .-  inevitabilmente minacciate  dal brusco passaggio da una condizione post-militare a una militare.  Il che, alla lunga rischia di  minare  il consenso e provocare pericolosi “giri di vite” autoritari, non facili da gestire   per chi sia asceso al potere quale difensore della legittimità democratico-pacifista-umanitarista (il nostro Presidente della Repubblica ne è un chiaro esempio). La guerra, soprattutto se di lungo periodo e in società come le nostre dove autorità e disciplina sono valori socialmente residuali, rischia   di  trascinare con sé  sommovimenti sociali e determinare la caduta - ovviamente temutissima in alto, come per qualsiasi classe dirigente - delle élites al potere.
Pertanto, per tornare all’attuale crisi,  se guerra sarà, sarà frutto di  pressioni (del nemico) e contingenze esterne (frutto di circostanze militari scalari),  sempre più forti, diremmo in crescendo, fino al punto di rottura.  La "forza degli eventi", o se si preferisce l'antico mors tua vita mea,   spingerebbe le élites  al comando  - sulle basi, ovviamente, di una tempistica culturale legata alle diverse tradizioni nazionali -  a scegliere,  anche (o soprattutto) per non perdere il potere,  la soluzione militare. Insomma, di giocare il tutto per tutto nella lotta per l'esistenza dei popoli.  Si potrebbe parlare di costrizione alla guerra. Il modo peggiore per iniziarne una. Ma così è.


Carlo Gambescia        

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