Isis, Siria e dintorni
Come può una società
divertentistica fare la guerra?
Può, ma solo se costretta…
La grave situazione in Medio Oriente
impone al sociologo alcune riflessioni sulla natura delle trasformazioni
avvenute nelle nostre società occidentali in relazione alla “pratica” della
guerra. E trarne le conseguenze. Procediamo.
1) L’evoluzione culturale delle società tardo-industriali
ha progressivamente eroso la credenza nella legittimità dell’uso della
forza. Dal momento che pacifismo e umanitarismo sono i
valori-base sui quali esse sono fondate.
2) A ciò si è associato
il declino dello spirito guerriero, declino tipico delle società
divertentistiche di massa, fondate su piani di vita ludici, individuali e
collettivi. Di qui, sul piano sistemico, la sua sublimazione (si pensi a riti del tifo
sportivo, ma anche alle eruzioni di violenza negli stadi) e la sua conseguente delimitazione alla repressione della devianza (dalla criminalità allo stesso tifo
violento).
3)
Sulla base di questi fattori le nostre società possono essere definite
post-militariste, o debellicizzate, quindi contraddistinte, sul piano normativo, dalla caduta di prestigio di tutto ciò (persone, valori, atteggiamenti,
comportamenti) che afferisce all’universo del conflitto armato generalizzato.
Ora, la guerra può essere cancellata
eticamente, culturalmente,
religiosamente, ma non sociologicamente. Perciò, dal momento che la verità dei
fatti (sociologici) si vendica sempre (poiché il fenomeno bellico ha andamento
fluttuante), prima o poi il nemico, come sta avvendo, può bussare alle nostre porte. Quindi il punto è:
come può una società post-militarista entrare in guerra? Cioè fare una scelta contraria al proprio universo
valoriale e comportamentale? Non può. Il che spiega, da parte del politico
post-militarista, il temporeggiamento ed eventualmente, quando proprio non se
ne può fare a meno, il ricorso alla
medicina bellica ad alta tecnologia: che
riduce o evita perdite di vite umane, difficili
da gestire politicamente dal punto di vista (normativo) del pacifismo e dell’umanitarismo.
Inoltre, esiste un altro problema, non da poco, legato
alle tecniche di conservazione del potere da parte delle élites dirigenti. Ci
spieghiamo subito.
Lo stato di guerra non può non influire sulle metriche divertentistiche - ad esempio in termini di programmazione dei singoli piani vitali .- inevitabilmente minacciate dal brusco passaggio da una condizione post-militare a una militare. Il che, alla lunga rischia di minare il consenso e provocare pericolosi “giri di vite” autoritari, non
facili da gestire per chi sia asceso al potere quale difensore della legittimità democratico-pacifista-umanitarista (il nostro Presidente della Repubblica ne è un chiaro esempio). La guerra, soprattutto
se di lungo periodo e in società come le nostre dove autorità e disciplina sono
valori socialmente residuali, rischia di trascinare con sé sommovimenti sociali e determinare la caduta - ovviamente temutissima in alto, come per qualsiasi classe dirigente - delle élites al potere.
Pertanto, per tornare all’attuale crisi,
se guerra sarà, sarà frutto di pressioni (del nemico) e contingenze esterne
(frutto di circostanze militari scalari), sempre più forti, diremmo in crescendo, fino al punto di rottura. La "forza degli eventi", o se si preferisce l'antico mors tua vita mea, spingerebbe le élites al comando - sulle basi, ovviamente, di una tempistica culturale legata alle diverse tradizioni nazionali - a scegliere, anche (o soprattutto) per non perdere il potere, la soluzione
militare. Insomma, di giocare il tutto
per tutto nella lotta per l'esistenza dei popoli. Si potrebbe parlare di
costrizione alla guerra. Il modo peggiore per iniziarne una. Ma così è.
Carlo Gambescia
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