Per farla finita con Keynes
E' in corso sul "Manifesto" un dibattito sul
programma economico del centrosinistra e in particolare sul ruolo della spesa
pubblica e delle politiche di deficit. Quel che stupisce è la perdurante
dipendenza teorica da Keynes (anche involontaria, come nel caso dell'intervento
di ieri di Giovanni Mazzetti, "Apologia del deficit", p. 9) che
finisce per viziare il dibattito e le varie soluzioni proposte.
Sulle quali è inutile perciò soffermarsi. Quel che invece
va approfondito, una volta per tutte, è il perché di questa dipendenza da
Keynes.
Ora, che Keynes sia il maggiore economista del XX secolo
è un dato scontato. E pure che sia stato oggetto di studio, ricerca e formazione
per numerosi economisti di sinistra (basti pensare al ruolo svolto in Italia da
economisti riformisti come Caffè , ma anche in ambito cattolico da studiosi
come Vito e Lombardini). Come del resto è acquisito che le politiche di deficit
spending siano alle origini dello straordinario sviluppo economico del secondo
dopoguerra.
E questi tre fattori, almeno a grandi linee, dovrebbero
essere più che sufficienti, davanti ai disastri economici sovietici e delle
pianificazioni burocratiche, per spiegare la "sudditanza"...
Tuttavia, spesso si dimentica che teoria keynesiana, poi
confluita in raffinati modelli econometrici e in pratiche di governo
liberal-laburiste e cattolico-sociali, in realtà è basata su un' idea di
sviluppo economico illimitato, oggi assolutamente improponibile, soprattutto
da parte di chi si appresta a governare l'Italia nei prossimi cinque anni. E
che, cosa non secondaria, le (tante) critiche a Keynes, come le (poche)
approvazioni, provengono da ambienti liberisti e liberali. E più in particolare
discendono dalla controversia anni Settanta-Ottanta del Novecento tra
monetaristi e non monetaristi sul controllo dei valori e volumi monetari; una
polemica tutta interna al conflitto tra liberali-liberisti e
liberali-keynesiani . Come dire, una "guerra di famiglia".
Pertanto la sinistra, anche se in modo forbito come
Mazzetti (autore tra l'altro di ottimi libri), discutendo Keynes, continua a
muoversi nell'ambito di un dibattito, che ha recepito e discute tematiche
interne e soprattutto nate "a" e imposte "dalla" destra. E
in questo senso fa il gioco, come si diceva una volta, del "sistema".
Dal momento che oggi i concetti di sviluppo e moneta vanno radicalmente
ripensati all'interno di un progetto politico postcapitalista.
Pertanto dividersi a sinistra, tra chi sostiene le
politiche "lacrime e sangue" (antikeynesiane) e chi, come Mazzetti,
politiche, pur interessanti, di "redistribuzione generale del lavoro"
basate comunque sull'idea di sviluppo economico crescente (non propriamente
keynesiane ma neanche anti, e in quest'ultimo senso la dice lunga la
compiaciuta citazione di Mazzetti dalle keneysiane "Prospettive economiche
per i nostri nipoti"...), non serve assolutamente a nulla.
L'idea di "lavorare meno, lavorare tutti",
implica un' idea sviluppo economico crescente e comunque di lungo periodo (e
con quali effetti di ricaduta ambientali ed ecologici?), che appunto non
sarebbe dispiaciuta a Keynes, perché in linea con la conservazione ( o se si
preferisce imbalsamazione, la vecchia idea milliana di stato stazionario) del
capitalismo: il migliore dei mondi possibili, secondo Keynes.
Perciò il punto non è quello di lavorare "poco"
lavorare tutti, ma mettere in condizione, chi non voglia lavorare (nel senso
tradizionale del termine) di dedicarsi ad altre attività creative, e di sua
scelta. Questa è la vera liberazione, anche in senso marxiano.
Ma per far questo è necessario fuoriuscire dal
capitalismo. E soprattutto, farla finita con Keynes.
Carlo Gambescia
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