lunedì 30 gennaio 2006

Per farla finita con Keynes




E' in corso sul "Manifesto" un dibattito sul programma economico del centrosinistra e in particolare sul ruolo della spesa pubblica e delle politiche di deficit. Quel che stupisce è la perdurante dipendenza teorica da Keynes (anche involontaria, come nel caso dell'intervento di ieri di Giovanni Mazzetti, "Apologia del deficit", p. 9) che finisce per viziare il dibattito e le varie soluzioni proposte.
Sulle quali è inutile perciò soffermarsi. Quel che invece va approfondito, una volta per tutte, è il perché di questa dipendenza da Keynes.
Ora, che Keynes sia il maggiore economista del XX secolo è un dato scontato. E pure che sia stato oggetto di studio, ricerca e formazione per numerosi economisti di sinistra (basti pensare al ruolo svolto in Italia da economisti riformisti come Caffè , ma anche in ambito cattolico da studiosi come Vito e Lombardini). Come del resto è acquisito che le politiche di deficit spending siano alle origini dello straordinario sviluppo economico del secondo dopoguerra.
E questi tre fattori, almeno a grandi linee, dovrebbero essere più che sufficienti, davanti ai disastri economici sovietici e delle pianificazioni burocratiche, per spiegare la "sudditanza"...
Tuttavia, spesso si dimentica che teoria keynesiana, poi confluita in raffinati modelli econometrici e in pratiche di governo liberal-laburiste e cattolico-sociali, in realtà è basata su un' idea di sviluppo economico illimitato, oggi assolutamente improponibile, soprattutto da parte di chi si appresta a governare l'Italia nei prossimi cinque anni. E che, cosa non secondaria, le (tante) critiche a Keynes, come le (poche) approvazioni, provengono da ambienti liberisti e liberali. E più in particolare discendono dalla controversia anni Settanta-Ottanta del Novecento tra monetaristi e non monetaristi sul controllo dei valori e volumi monetari; una polemica tutta interna al conflitto tra liberali-liberisti e liberali-keynesiani . Come dire, una "guerra di famiglia".
Pertanto la sinistra, anche se in modo forbito come Mazzetti (autore tra l'altro di ottimi libri), discutendo Keynes, continua a muoversi nell'ambito di un dibattito, che ha recepito e discute tematiche interne e soprattutto nate "a" e imposte "dalla" destra. E in questo senso fa il gioco, come si diceva una volta, del "sistema". Dal momento che oggi i concetti di sviluppo e moneta vanno radicalmente ripensati all'interno di un progetto politico postcapitalista.
Pertanto dividersi a sinistra, tra chi sostiene le politiche "lacrime e sangue" (antikeynesiane) e chi, come Mazzetti, politiche, pur interessanti, di "redistribuzione generale del lavoro" basate comunque sull'idea di sviluppo economico crescente (non propriamente keynesiane ma neanche anti, e in quest'ultimo senso la dice lunga la compiaciuta citazione di Mazzetti dalle keneysiane "Prospettive economiche per i nostri nipoti"...), non serve assolutamente a nulla.
L'idea di "lavorare meno, lavorare tutti", implica un' idea sviluppo economico crescente e comunque di lungo periodo (e con quali effetti di ricaduta ambientali ed ecologici?), che appunto non sarebbe dispiaciuta a Keynes, perché in linea con la conservazione ( o se si preferisce imbalsamazione, la vecchia idea milliana di stato stazionario) del capitalismo: il migliore dei mondi possibili, secondo Keynes.
Perciò il punto non è quello di lavorare "poco" lavorare tutti, ma mettere in condizione, chi non voglia lavorare (nel senso tradizionale del termine) di dedicarsi ad altre attività creative, e di sua scelta. Questa è la vera liberazione, anche in senso marxiano.

Ma per far questo è necessario fuoriuscire dal capitalismo. E soprattutto, farla finita con Keynes.

                                                                                                                         Carlo Gambescia

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