giovedì 19 gennaio 2006

Profili/9
Richard Morris Titmuss




Richard Morris Titmuss (1907-1973) è il classico studioso purtroppo noto solo agli "addetti ai lavori", e che invece merita di essere letto da un pubblico più ampio. Inglese, del Bedfordshire, origini modeste, a quindici anni si ritrova capofamiglia, costretto ad abbandonare gli studi. Non conseguirà mai alcun titolo accademico. Negli anni Trenta, tuttavia, i suoi interessi sociali, e la conoscenza da vicino dei fasti e delle miserie dell' economia capitalistica (Titmuss lavorava a quel tempo presso una grande compagnia di gestione di fondi assicurativi privati ), lo spingeranno a studiare, da autodidatta, i grandi problemi sociali. Un libro in particolare, Problems of Social Policy (1950), gli varrà la chiamata alla London School of Economics, fortemente voluta da R.H.Tawney, autore di memorabili studi sulle origini del capitalismo e sulla "società acquisitiva". Titmuss insegnerà alla LSE fino all'anno della sua morte.
Seguiranno libri come Essays on the "Welfare State" (1958), tradotto in italia dalle Edizioni Lavoro con un'ampia introduzione di Massimo Paci (www.edizionilavoro.it), Choice and the Welfare State (1967), Commitment to Welfare State (1968), Income Distribution and Social Change (1970), e l'importantissmo The Gift Relationship from Human Blood to Social Policy (1970, ripubblicato nel 1997 da The New Press <www.thenewpress> a cura di A. Oakley e J. Ashton, con a corredo, saggi che commentano e aggiornano le tesi di Titmuss).
Tuttavia, sarebbe riduttivo definirlo il classico studioso di politiche sociali, "fabiano" e vicino al partito laburista, con forti inclinazioni "stataliste". Titmuss, indubbiamente, non sottovaluta il ruolo dello Stato nelle politiche sociali, ma alla base di queste pone sempre quella solidarietà spontanea che distingue ogni gruppo umano. Se una società teorizza il conflitto e la competizione economica e l'utilitarismo, come valori fondanti, anche il "welfare" non potrà non essere conflittuale, competitivo e utilitaristico. Lo stato deve perciò rispettare le solidarietà naturali (familiari, locali, professionali), e favorirne lo sviluppo come "serbatoio di altruismo e di valori", pur garantendo, soprattutto attraverso lo strumento fiscale-redistributivo e l'onestà e l'impegno dei suoi funzionari, un quadro minimo di eguaglianza sociale e di pari opportunità per tutti. Welfare e solidarietà "dal basso" devono procedere di pari passo. Un equilibrio, certo, non sempre facile da raggiungere.
In The Gift Relationship, con un ricchezza di dati ancora oggi soprendente, Titmuss prova come il sistema delle donazioni di sangue (privatistico e commerciale in America; regolato dallo stato, ma su basi volontaristiche e altruistiche nel Regno Unito) "divida" gli uomini negli Stati Uniti e invece li unisca in Gran Bretagna. Messa così, la tesi può sembrare banale, ma Titmuss, la suffraga ricostruendo nei minimi dettagli sociologici, quella che forse è la forma di dono più autentica: il dono della vita attraverso la trasmissione del sangue (anche in tempi, come questi, in cui infuria l' AIDS; si legga nell'edizione del 1997, il bel saggio in argomento di V. Berridige, pp. 15-40). Un libro insomma, che chiunque studi il fenomeno del dono, deve leggere.

Su Titmuss si veda in particolare, soprattutto per gli aspetti teorici del suo pensiero, il recente volume a cura di P. Alcock, H. Glennerster, A. Oakley, A. Sinfield, Welfare and Wellbeing: Richard Titmuss's Contribution to Social Policy, The Policy Press 2001, pp. 368 (www.policypress.org.uk/).

Carlo Gambescia

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