giovedì 30 gennaio 2014

Il libro della settimana. Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare Piombino,  Edizioni A. Car.  2014, pp. 194,  Euro 12,50 -  http://www.edizioniacar.com




I piombinesi sono come i portoghesi? Non è una battuta, perché nel  bel libro di Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare Piombino (Edizioni A. Car.) si respira una tristezza molto portoghese, così come viene descritta  in un bella pagina  di Mircea Eliade,  che merita di essere riletta:

Questo è un popolo triste. Me l’ha detto un giorno un amico portoghese, ma non volevo crederci. Più conosco i Portoghesi, più mi convinco che la saudade non è un’invenzione di Coimbra, dei poeti e dei viaggiatori romantici. I portoghesi non hanno l’espansività dei meridionali , non hanno nessun tipo di veemenza, nessun grido esploso da un eccesso. Penso a tutti i miei amici, a tutti i Portoghesi che ho conosciuto, alla gente intravista  sui treni, nelle piazze, seduta ai tavolini dei caffè o nelle sale di spettacolo. Hanno tutti una curiosità, impacciata sobrietà nei loro gesti, sebbene non siano pacati. Sono malinconici, sorridono continuamente, con lo sguardo perduto, sono affabili come tutti coloro che portano con sé una tristezza inesplicabile, senza motivo.
(M. Eliade, Le messi del solstizio, Memorie 2: 1937-1960, a cura di Roberto Scagno, Jaca Book 1995, p. 75).

Il parallelo non è del tutto calzante?  Forse.  Tuttavia, i tre archetipi viventi di calciatori  piombinesi, Agroppi, Vieri e Sonetti, evocati  nel romanzo, quasi  numi tutelari della piombinesità ( si dice così?),   sorridono di meno,  probabilmente sono anche meno affabili,  ma  hanno lo stesso sguardo perduto, portatore di una tristezza inesplicabile,  del protagonista: Giovanni, ex calciatore di serie A,  tornato  a casa per allenare la squadra dilettanti della sua città natale.

Giovanni è tornato a Piombino per ammalarsi di ricordi. Quando la realtà non è come la vogliamo si finisce per rifugiarsi nel passato, negli episodi dell’infanzia, perduti nelle feritoie della vita […]   Vivere con i ricordi è bellissimo, reca una felicità struggente, vivere di ricordi no, fa invecchiare in fretta. Se almeno ci fosse il calcio, quel calcio che per Giovanni è la sola cosa capace di farlo vivere senza pensare (pp. 77-78).

Sì, il calcio: l’alfa e l’ omega di una intera vita.   Tuttavia sotto  c’è dell’ altro: la ferma eppure  malinconica  consapevolezza  dell’inarrestabile  flusso delle cose umane.

Il problema con la vita è che, anche quando non cambia mai, cambia continuamente, pensa Giovanni. Una frase letta in un libro un po’di tempo fa, forse in ritiro, alla vigilia di una partita importante, non ricorda dove, ma riassume il suo stato d’animo attuale, la situazione di quiete in una provincia dove il tempo sembra immobile e ripiegato su se stesso, dove il giorno successivo ha il sapore del precedente. Ma cambia, certo che cambia. Abbiamo vinto il campionato, tra poco cominceremo la preparazione per una nuova avventura, molti anni sono passati e hanno lasciato il segno, dispensato ferite, distrutto ricordi. Piombino non è la stessa di quando sono tornato (p. 103).

In  fondo la parabola esistenziale, individuale  e sociale,  che segna il  romanzo, che pure  ha una   sua trama avvincente,  è simbolicamente  racchiusa nella parabola del piombinese stadio Magona.

 Calcio e acciaio, binomio indissolubile, come dicono i vecchi, parafrasando pane e fumo, modo di dire dei piombinesi come suo padre che hanno passato la vita nella grande fabbrica maleodorante, polipo gigantesco che allunga tentacoli di fuoco tra le viscere degli abitanti. Prendilo, è di Magona! Dicevano le mamme alle figlie ai tempi del Piombino in serie B. La Magona produceva lamiere, finanziava il calcio, era il simbolo d’una città fiorente dove tutti avevano un lavoro. Un marito che lavorava in Magona, in Acciaieria, persino alla Dalmine, era una garanzia. Adesso, invece, si parla di chiudere l’altoforno  (p. 116)

Eppure…

Lo Stadio Magona è là dagli anni Cinquanta, dopo la chiusura del Salvestrini nella zona del porto, con il velodromo e la rete di recinzione appena intuita, dopo la fine di piazza Dante come campetto dei pionieri. Lo Stadio Magona volevano demolirlo per edificare un Centro Commerciale Coop, un orrendo magazzino Ikea e pure un megaparcheggio. Lo Stadio Magona per fortuna è ancora al suo posto, brutto, cadente, decrepito, ma grande contenitore di ricordi (p. 140).

Perciò la vita continua…  A che prezzo?

Giovanni sa che le acciaierie sono in crisi, uomini e donne rischiano di restare senza lavoro, senza una speranza per il futuro, privi di quel posto fisso che è stato il sogno del nonno e del padre. Il mondo che il vecchio allenatore ha  conosciuto sta scomparendo giorno dopo giorno. Il calcio è l’ultima certezza della sua vita, non è più il calcio che l’ha convinto a sfidare l’ignoto, ma in fondo la lotta domenicale è scontro fisico, agonismo, rabbia, persino commozione. Tutto questo fa parte della sua passione, immodificabile, eterna, indistruttibile, che l’ha portato a credere di poter continuare a sognare, proprio come diceva il nonno (pp. 186-187).

Romanzo, come dire,   filosofico?  Dove la “piombinesità” è il  bisturi  affilato per  sezionare   l’universo umano?   Non solo.  Come accennavano, la trama  della storia  non delude e  i personaggi  hanno  vitalità e fisionomia propria. Da Giovanni, Eraclito del calcio filosofico, malinconicamente  consapevole di non poter bagnarsi due volte nello stesso fiume,  al nonno, Francesco,  dalla vita sognante e avventurosa,  che come “migrante” si bagnerà  nelle acque di più fiumi. L’esatto contrario del figlio Antonio, padre di Giovanni,  inchiodato alla catena di montaggio  sulle rive del Tirreno, che trasferirà i suoi sogni sul  figlio.    E poi Carla,  madre e  irrequieta controfigura di Giovanni; Debora, pensiero ricorrente di una sfida  mai accettata e comunque perduta;  Cinzia,  amica-amante e convitato di pietra di un mondo fatto di abitudini.  E così via, di slancio,  attraverso   altre figure, che non sono mai minori e che si accendono di luce propria,  anche  solo per un momento:   Paolo,  Sergio,  Gino, Paola.  Infine   Tarik:   calciatore di belle speranze , approdato a Piombino dal Marocco,   prigioniero  della  saudade,   perché  moglie e figlio sono lontani. Di qui, per mutare registro linguistico,  il rendimento  alterno,  di un atleta nel quale Giovanni  

vede il figlio perduto, vorrebbe comprendere cosa lo rende insoddisfatto. Nei suoi occhi rivede il passato, il campo sterrato di Gela, le battaglie con Acireale, Catania, Messina, i giorni di Trani, la maglia nerazzurra del Bisceglie e gli anni d’oro a Milano. Adesso che altri allenatori hanno preteso da lui. Allenare i nerazzurri di Piombino è un ruolo che ama, ormai non chiede altro al mondo del calcio,dopo aver vagabondato per tutta la vita in cerca di fortuna ha trovato il suo angolo di quiete. Giovanni assapora il vento di ponente, che spira violento dall’Elba, respira l’odore ferroso della acciaieria ela sabbia del deserto, quella sabbia che viene dall’Africa in cui Tarik ha lasciato la famiglia. Giovanni teme che il suo campione non voglia credere nei sogni, ma forse sarebbe peggio che non ne avesse, che vivesse senza tentare di centrare un obiettivo alla sua portata.“Devi far vedere quel che vali, ragazzo!”, gli dice Giovanni durante una pausa dell’allenamento. “Sarai al centro del nostro attacco. Tutto  dipenderà dalle tue reti. Non mi deludere”.  Tarik sorride. Scarpette bullonate e maglietta nerazzurra fuori dai pantaloncini bianchi. È il sorriso di chi ha soltanto vent’anni ma ha vissuto cose più grandi di una partita di calcio, è il sorriso di chi non potrà mai prendere troppo sul serio un rettangolo verde dove si gioca per mettere un pallone in fondo alla rete. Sembra un dialogo tra padre e figlio, tra un vecchio allenatore e un giovane attaccante da gli occhi tristi. Tutto il resto è palcoscenico, consueto contorno della vita. Un gabbiano passeggero, una rondine distratta, la colonna di fumo dell’acciaieria. Giovanni e Tarik sono l’alba e il tramonto d’un sogno che non può andare perduto (pp. 112-113).

Che fare?  Come aiutarlo?   Giovanni non dimentica la lezione del nonno “migrante” e sognatore perché migrante e migrante perché sognatore…   Lasciamo però  al lettore il piacere di scoprire se e come…   Anche qui  però sembra  riaffacciarsi  l’ inesplicabile  saudate portoghese-piobinese  di cui parlavamo all’inizio.  Dal momento che

Giovanni spera che [Tarik, ndr] si ricordi di lui, della sua prima squadra, del cadente Stadio Magona dove ha debuttato, dei volti di operai anneriti dal fumo dell’altoforno,delle strade strette e tortuose che conducono nella piazza sul mare. Tarik, proprio com’è accaduto al vecchio allenatore, non dovrà mai dimenticare Piombino (p. 187). 

Ce la farà Tarik?  Riuscirà a diventare un campione.   Giovanni sa,  come il nonno,  che tutto cambia… Ma sa anche, come il padre,  che la vita spesso impone di  adattarsi.   

Mi trovo spesso a pensare che siamo i protagonisti d’una storia che sta finendo, confinati in un angolo d’ombra, viviamo del nostro passato, piangiamo sulla nostra vita. Ogni tanto ci ritroviamo, si accende una scintilla, proviamo una nostalgia incredibile del passato. Sappiamo che non può tornare. Sappiamo che dobbiamo vivere il presente (p. 108).



Vivere il presente  significa  andare avanti.   E andare avanti  implica sempre la rinuncia  a qualcosa.  E anche Tarik dovrà fare le sue scelte.   Il che potrebbe essere argomento per un altro bel romanzo, tra filosofia, calcio e realtà,  pasolinianamente  intitolato Tarik dagli occhi azzurri.     

Carlo Gambescia   

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