Abbiamo visto in ritardo
La grande bellezza di Paolo Sorrentino. E in ritardo ne
parliamo. Ovviamente non da critici, perché non abbiamo alcuna
preparazione specifica. Ne discutiamo,
da normalissimi spettatori, con
qualche lettura sociologica alle
spalle.
Diciamo subito che il film non ci
è piaciuto. Per confrontarsi con un tema
come quello della decadenza - nel caso
quello di una città, di una società, di uno scrittore - si deve avere una preparazione culturale
adeguata. E Sorrentino, non va oltre la
media dei cinematografari italiani di oggi. Crede che cultura, come si mostra nel
film, sia “carrellare” gli Adelphi impilati, con
qualche macchia, qui e là, di un bianchiccio Einaudi d’antan … Oppure che basti
saccheggiare per la milionesima volta Proust… Pietoso.
Un film deludente. E questo
perché Sorrentino non ha la “visionarietà” (non la visione, attenzione…) sociologica del Fellini, pur continuamente omaggiato, della
“Dolce vita, né l’espressionismo figurativo di Greenaway (“Il ventre
dell’architetto”), né, infine la cultura
storico-politica, pur greve, ma superiore alla media, di uno Scola (“C’eravamo tanto amati”).
Il film procede per brutti e noiosi quadri staccati. Una specie
di pinacoteca di provincia, che colleziona pittori minori, manieristi, privi di qualsiasi slancio. Con un protagonista, Servillo,
che prousteggia a tutto spiano, in cerca della purezza e
bellezza perdute (sai che
novità…). In mezzo a caricature che sembrano uscite dall’ultimo film dei fratelli Vanzina. Però i frères,
a differenza di Sorrentino, sono
consapevoli dei loro limiti. E sicuramente vivono in pace con se stessi. Quindi meglio di Sorrentino. Il quale,
antropologicamente diviso tra il
pane e le rose, non sa quello che
vuole. E si vede.
Non c’è Roma: ridotta a puro e semplice frullato di immagini scontate e di umori dozzinali, a metà
strada fra “Kilimangiaro” e
“Quark”; non c’è decadenza: ma soltanto la ricercata eleganza blasé, anche
di eloquio del protagonista. Una retorica, chiacchiere e distintivo, che dopo pochi
minuti manda in tilt il film, rivelando la sua
vera natura di specchietto per
lamentose allodole postcomuniste.
Infine, non basta riempire la scena di suore e preti, aggrappandosi allo
sciarpone di Fellini….
Purtroppo, la storia, anche al cinema, tende a
ripetersi la prima volta come tragedia,
la seconda come farsa. E il film di Sorrentino, a differenza di quelli di
Fellini, Greenaway, Scola, è un farsa noiosa e brutta.
Il che significa, che, giocando sui sensi di
colpa e sull’ignoranza della “macchina" cinematografica hollywoodiana, “La grande bellezza”, vendendo aria fritta imbottigliata a Sud di Capannelle,
potrebbe pure vincere l’ Oscar…
Carlo Gambescia
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