Il libro della
settimana: Mircea Eliade, Salazar
e la rivoluzione in Portogallo, a
cura di Horia Corneliu Cicortaş, con un saggio di Sorin Alexandrescu, Bietti
2013, pp. 320, euro 24,00 - http://www.edizionibietti.it/index.asp?Id=CAT
A prima vista la scelta di ripubblicare un
libro pro Salazar scritto da Mircea Eliade negli anni del soggiorno portoghese
può sorprendere. Parliamo di Salazar
e la rivoluzione in Portogallo (Bietti),
testo in qualche misura disconosciuto dallo stesso Eliade, già nel 1944: « Non
rimpiango niente con maggior intensità che il tempo perso nel 1941 e il 1942 a documentarmi e a scrivere il
libro su Salazar. Che nefasta decisione presi nel novembre 1941! Quando
penso che, per Salazar, rinunciai al libro progettato su Camões, in cui
avrei avuto tanto da dire sull’India, sulle scoperte oltremarine, sulle culture
oceaniche!...» ( p. 294).
In realtà, si tratta, come si evince dall’ottimo saggio del
professor Cicortaş, da cui abbiamo ripreso la citazione, di una
scelta più che opportuna. E per due ragioni.
In primo luogo, perché la lettura di Salazar e la rivoluzione in
Portogallo permette di fare luce sull’impoliticità del
pensiero di Eliade. Piccola premessa: siamo davanti a un
grandissimo studioso delle religioni, che però non ha mai capito la
natura profonda del fenomeno politico. Ovviamente, ci riferiamo al “politico”
in senso schmittiano, come durissimo conflitto amico/nemico per
l’acquisto e la conservazione del potere. Detto questo, veniamo al punto:
per tutto il libro Eliade sviluppa una critica al liberalismo
e alla politica dei moderni, che però, politicamente parlando, non
ha senso compiuto. Per quale motivo? Perché Eliade, impoliticamente, oppone
alla politica dei moderni, maldestramente imposta dall'alto in Portogallo,
la politica spirituale, o spiritualizzata, della tradizione pre-moderna,
da lui ricondotta, senza alcuna esitazione, nell’alveo della
migliore tradizione portoghese. Insomma, di qua i buoni, di là i cattivi.
Ora, il punto è che le costanti del politico,
come avverte la metapolitica più vigile, sono sovratemporali,
nel senso che valgono per tutti: buoni e cattivi, antichi e
moderni. Cosicché resta difficile (si pensi all’ esperienza
del cristianesimo), se non del tutto impossibile ( si rifletta sui
totalitarismi/autoritarismi novecenteschi) ritenere che le rivoluzioni, anche
le più spirituali, che tanto affascinavano il giovane Eliade, una volta
“stabilizzate”, non obbediscano regolarmente alle leggi del politico e di
riflesso della conservazione del potere a ogni costo.
Perciò non esistono regimi liberali, tradizionali,
antichi, moderni, eccetera, assolutamente perfetti e indenni da
conflitti, divisioni, lotte, intrighi eccetera. La politica passa, il
"politico" resta. Senza questa distinzione concettuale si
finisce inevitabilmente per gettare insieme all'acqua sporca (la
politica e la sua possibilità di rifondarla), il bambino (le leggi del
politico). Ed è quel che accade al grande storico delle religioni, il
quale trascorrerà dai fervori giovanili, più o meno politicizzati a
destra, all'ascetismo scientifico degli anni americani, passando attraverso la
disillusione, maturata nel periodo francese, verso la possibilità di
rifondazione spirituale della politica. Senza una nuda visione del
"politico", come dire, al di là del bene e del male Eliade, l'
ammiratore pentito di Salazar e altro ancora, non potrà non oscillare
fra il troppo e il troppo poco.
In secondo luogo, perché i continui, convinti, talvolta
addirittura entusiastici, richiami eliadiani al valore salvifico della politica
economica autarchica di Salazar, possono gettare, per
contrasto ( e non solo con il senno di poi), una luce ben diversa e
assai più realistica sui costi effettivi del nazionalismo economico. Nonostante
gli sforzi, anche letterari di Eliade, Salazar, come si può evincere da
qualsiasi buona storia economica del Portogallo moderno, impose al suo
popolo, all’epoca ben lontano dal tenore di vita attuale, una durissima
politica di tagli, risparmi e austerità. Non si comprese che un ciclo
storico, quello imperiale, era finito per sempre. Cosicché Salazar, pur di
tenersi fuori dall’odiato modernismo europeo, imbalsamò la società portoghese
e alla lunga rese insostenibile e antieconomico, a causa del ristretto
mercato interno, la conservazione stessa delle ultime colonie. Perciò, quando
oggi si parla, e fin troppo facilmente, di sovranismo e decrescita
si dovrebbe invece riflettere sul sostanziale fallimento economico della
ricetta autarchica salazariana. Perché se è vero che è esistito "il
salazarismo dei ponti e delle strade", del resto necessari in
un paese arretratissimo, è altrettanto vero che la trasformazione economica del
Portogallo avverrà dopo un'altra rivoluzione, ma di segno opposto, quella
"dei garofani", anno di grazia 1974. Rivoluzione che coinciderà con
una nuova e vivificante apertura alla modernità europea. Quindi,
ripetiamo, il libro di Eliade è utile, suo malgrado, come vaccino
contro le ricorrenti fumisterie autarchiche.
Di certo, coloro che tuttora celebrano la mitica
società organica, in qualche misura teorizzata da Salazar - il cui regime
è onesto ricordarlo fu di tipo autoritario più che fascista o
nazionalsocialista - troveranno nel volume quei motivi di gratificazione,
che purtroppo non mancano, nonostante, come dire, gli intelligenti e
forbiti avvisi ai viaggiatori di due bravissime guide come Cicortaş
e Alexandrescu. Perciò esiste il pericolo di ipnotiche
idealizzazioni, così apprezzate negli ambienti culturali e politici,
fortunatamente in disarmo, più ricettivi al richiamo della metafora
organicista. Ed è un peccato, perché si rischia di andare oltre Eliade
(che come abbiamo visto disconobbe il volume) e di fabbricare
l'ennesimo mito incapacitante. E cosa più importante, di ignorare
le costanti del politico, che insegnano che il potere, anche
il più spiritualizzato e puro, tende sempre a ricostituirsi. E
quanto più una società è chiusa tanto più il potere non trova ostacoli.
Il che sarà pure una banalità, ma del tipo "superiore" per dirla con
Gide.
Carlo Gambescia
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