Il libro della settimana: Giovanni Sartori, Ingegneria costituzionale comparata,
il Mulino 2013, pp. 244, euro 14,00 – http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=24678 .
Ottima l’idea di ripubblicare in
paperback Ingegneria
costituzionale comparata (il
Mulino) di Giovanni Sartori: il volume rappresenta un autentico concentrato di
sapienza politologica. Parliamo di un lavoro « svelto», per usare le parole dell’autore,
scritto seguendo il filo di quel “realismo democratico” (realismo
cognitivo più empirismo e pragmatismo) che sembra brillantemente segnare il
pensiero di Sartori: uno studioso
che può permettersi di dare del tu a Pareto, Mosca, Michels. E al tempo stesso, di andare oltre
la “sacra triade” appena ricordata. E per una ragione semplicissima: per
l’apprezzamento della democrazia liberale, quale orizzonte da cui, giustamente, è assai pericoloso fuoriuscire. Pareto non
fece in tempo. Mosca avvertì, anche in se in ritardo il pericolo, Michels invece deragliò.
Qui va subito fatta
un’osservazione. Il nostro augurio è che Ingegneria costituzionale
– questa volta – non si limiti ad «accompagnare» il dibattito
politico sulle riforme istituzionali, come si legge, nell’Avvertenza. Infatti, speriamo con tutto il cuore che la
proposta di Sartori per un sistema elettorale maggioritario fondato sul
doppio turno di collegio, capace di ridurre numero dei partiti, e su
correttivi semipresidenziali in grado di garantire governi efficienti, sia finalmente recepita dai politici. E in tale direzione interattiva sembra andare l’ appello dell’ ottobre
scorso di Sartori e Ignazi sottoscritto da cento politologi italiani (http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/10/28/news/legge-elettorale-l-appello-di-sartori-e-ignazi-1.139325 ). Il che però apre il
triste capitolo sul rapporto fra professori e politici Dei
professori di Berlusconi, sappiamo tutti che fine hanno fatto… In realtà, anche degli studiosi vicini alla
sinistra più riformista si sono perdute le tracce. Quanto all’
ultima commissione riformatrice, frutto delle “larghe intese”, presieduta
dal professor Quagliariello, è meglio stendere un velo pietoso. Infine, per
tornare alla lectio sartoriana, sia il “Mattarellum” che il “Porcellum”
(così ribattezzato dallo stesso professore), sembrano concepiti per far
dispetto alla scienza dello studioso fiorentino e in barba agli italiani
che, da vent’anni, continuano a votare in un modo per essere
governati in un altro. Ora, in
questi giorni il dibattito è ripartito. Pare tuttavia che la
bilancia dei rapporti di forza tra politici e professori continui a
pendere dal lato dei politici… Sartori, non sarà d’accordo, ma provare con un
viaggio a Lourdes dei cento sottoscrittori?
Veniamo a Ingegneria costituzionale, di cui ci interessa illustrare la ratio. Il volume, scritto nel
1994 per il pubblico di lingua inglese si articola il tre parti: I. Sistemi
elettorali; II. Presidenzialismo e parlamentarismo; III. Temi e proposte. Ed è
completato da una breve appendice che risale al 2004.
Lo spirito - la ratio per l’appunto - che unisce
logicamente le varie parti è rappresentato dalla valutazione
comparata in termini di resa dei vari sistemi. L’ingegneria costituzionale è
tale perché studia le costituzioni come macchine e meccanismi che devono
funzionare in base a strutture fondate su incentivi e castighi. Un approccio che i politici tendono ad eludere, preferendo
spesso incentivare se stessi e la propria parte e castigare, dopo
averli illusi, cittadini e avversari.
Di qui, un osservazione sartoriana, a nostro avviso fondamentale: che
anche la macchina costituzionale più perfetta deve fare i conti con
le tradizioni politiche, storiche e sociali preesistenti: perciò il
bipartitismo, incoraggiato elettoralmente puntando sul maggioritario, in una
nazione distinta dal particolarismo ideologico, etnico, eccetera,
non darà mai buoni risultati, dal momento che i partiti tenderanno a
riflettere, anche all’interno, le numerose divisioni esistenti. Per
contro il pluripartitismo, favorito in chiave proporzionalista, in assenza del particolarismo sociale,
ideologico e politico, rimane perfettamente inutile o rischia di
incoraggiare divisioni in precedenza inesistenti, magari di tipo partitocratico
e lobbistico.
Inoltre, il
presidenzialismo funziona meglio, o meno peggio, dove c’è un interesse, per
ragioni storiche, culturali, eccetera, a farlo funzionare, come negli
Stati Uniti, altrimenti rischia di produrre autoritarismi, come in
America Latina. Ciò non significa che il parlamentarismo sia
migliore, dal momento che per funzionare richiede partiti disciplinati,
altrimenti si rischia l’anarcoide trasformismo parlamentare.
Perciò non esistono ricette magiche o riposte definitive. In effetti, i
principali avversari di Sartori sono i perfettisti, i «primitivismi
democratici», i costruttivisti: tutti coloro che credono basti mettere nero su bianco una riforma, una legge, un comando per cambiare le cose . «La democrazia -
osserva il politologo - non può essere semplicemente potere
del popolo, giacché “potere del popolo” è solo una abbreviazione di
“potere del popolo sul popolo”. Il potere è una relazione, e
avere potere implica che qualcuno controlla (in qualche modo o misura) qualcun
altro. Inoltre, un potere reale è un potere che viene esercitato. Ma come può
un intero popolo - composto da decine o anche centinaia di milioni di persone -
esercitare potere su stesso? A questo quesito nessuno sa dare un risposta semplice»
(p. 157).
Da ciò discende l’ importanza,
come forma istituzionale intermedia,
della democrazia rappresentativa, in cui «il demos non decide in proprio le questioni, le issues, ma si limita a decidere
(scegliere) chi le deciderà». Il che si
chiede Sartori, può sembrare «troppo
poco»… In realtà, prosegue, «per
ottenere di più occorre che ogni incremento di demo-potere sia sostenuto da un incremento
di demo-sapere di informazione e conoscenza.
Altrimenti la democrazia diventa un “direttismo” gestito da incompetenti,
da chi-non-sa-nulla-di-nulla, e quindi un sistema di governo si suicida» (p.
231). Ma come accrescere
collettivamente un sapere la cui
banalizzazione e direttamente proporzionale al numero di coloro a cui si
rivolge. Di qui, la sua convinzione circa la necessità
di accettare la democrazia rappresentativa come migliore dei mondi possibili.
A dire il vero, Sartori ne ha per
tutti. In particolare, per la «grafomania
costituzionale». Con tale
termine lo studioso si riferisce alle costituzioni lunghe o «aspirative» (come raccolte di pure “aspirazioni”),
dove le altisonanti promesse di riforma sociale contrastano con l’idea di
castighi e premi reali, difesa da Sartori. Infatti, proclamare
costituzionalmente che gli uomini hanno diritto a questo e quello, pur essendo giusto in linea di
principio, significa aprire la porta alle richieste più
strane, talvolta assurde, economicamente insostenibili, come nel caso
dei diritti sociali a pioggia. Per
contro una costituzione capace di
recepire il principio (astratto e
generale) che ogni legge, anche in tema di qualificazione dei diritti, deve rinviare a precisi vincoli
antideficit di bilancio,
resta un buon
esempio di sistema fondato, anche in linea di fatto, su castighi e premi: non c’è più
alcun diritto soggettivo assoluto,
bensì un
diritto oggettivo che tempera o frena la
costosa rincorsa ai
diritti soggettivi.
«Le costituzioni – nota Sartori
- sono “forme” che strutturano e
disciplinano i processi di formazione delle decisioni statuali. Le costituzioni
stabiliscono come debbano essere create le norme; non
decidono, né debbono decidere che
cosa debba essere stabilito
dalle norme. Il che vuol dire che le costituzioni sono, prima di tutto, procedure mirate ad assicurare un esercizio
controllato del potere. Pertanto, e viceversa, le costituzioni sono e
devono essere neutrali in sedi di contenuti (content neutral). Una
costituzione che avoca a sé le determinazioni politiche, e cioè dei
contenuti della politica, si sostituisce indebitamente alla volontà
popolare e agli organi (parlamenti e governi) ai quali le decisioni politiche
sono costituzionalmente affidate » (p. 216).
Di qui, spesso, il
«sovraccarico delle “capacità costituzionali” che porta alla incapacità di funzionare».
Cosicché « se gli estensori di costituzioni non sanno resistere
alla tentazione di ostentare i loro nobili intenti, questi dovrebbero
essere collocati un Preambolo “programmatico”. Dopodiché i
costituenti sono tenuti ad occuparsi seriamente di ciò che
seriamente dovrebbero fare: elaborare uno schema di governo, che tra l’altro,
soddisfi le esigenze di governabilità» (p. 217).
Serve altro? Crediamo proprio di
no.
Carlo Gambescia
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