Il libro della settimana: Giuseppe Bedeschi, La prima Repubblica
(1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Rubbettino 2013, pp.
354, Euro 19,00.
Non è facile
indicare cosa leggere sulla storia della Repubblica, in
particolare la Prima : un
Titanic istituzionale apparentemente indistruttibile fino
all'urto mortale contro l’iceberg Tangentopoli.
In argomento, sono
reperibili molti buoni libri, ma di solito consigliamo ad amici, lettori,
studenti Una storia
della Repubblica (Rizzoli) di
Giano Accame, brillante scrittore e giornalista di destra e Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio) di Silvio Lanaro,
uomo di sinistra e acuto storico dell’Università di Padova. Tra l’altro,
i due studiosi, oggi scomparsi, si stimavano. Chissà, ora di lassù…
Accame si concentra
magistralmente sull’identità italiana, Lanaro sulle discontinuità sociali
e antropologiche. Cosicché i due libri si integrano a vicenda. E
senza cadere nella retorica celebrativa o di parte tratteggiano lo
scrupoloso affresco di un popolo che, in fin dei conti,
nel secondo dopoguerra si è mostrato più maturo della sua
stessa classe politica. Del resto che cosa ha rappresentato
Tangentopoli, al netto delle strumentalizzazione politiche e giudiziarie?
Se non la disperata richiesta dal basso di una
nuova classe politica? Finalmente all’altezza di un’ Italia
moderna, desiderosa di lavorare, produrre, studiare, inventare? E
perché no, anche divertirsi?
Sul problema
dell’inadeguatezza della classe politica si concentra invece il notevole
libro di Giuseppe Bedeschi, storico della filosofia che non
ha bisogno di alcuna presentazione, La
prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile
(Rubbettino). Un testo che d’ora in avanti consiglieremo -
ecco il perché del lungo preambolo… - come terza
lettura “obbligatoria”, anche perché va a colmare un deficit per così dire
politico, trattandosi dell’ opera di uno studioso liberale.
Ma c’è un altro
aspetto da sottolineare. Come per i due libri ricordati, anche il lavoro
di Bedeschi è interpretativo. Quindi per un verso si fonda
sull’uso sapiente e discriminante di ottime fonti secondarie,
per l’altro prende slancio argomentando intorno a un’idea-forza
storiografica. Per farla breve: se l’opera di Accame indaga ildramatis
personae, quella di Lanaro approfondisce le strutture antropologiche
e sociali, il testo di Bedeschi, come accennato, allarga
l’analisi ai problemi dell’integrazione politica. E
con l’ occhio di un filosofo politico assai attento ai
reali rapporti di forza. Cosa vogliamo dire? Che Bedeschi,
ottimo storico della filosofia per l'occasione trasformatosi in
sagace storico della politica italiana, riesce ad affrontare
e sciogliere il nodo della difficile convivenza tra concetti
politici e pratica dei medesimi, rimettendo la filosofia politica
di ispirazione liberale sulle forti gambe di una analisi della politica
concreta. Sotto questo punto di vista il libro ha un eccellente valore
metodologico.
Il che spiega
pure il dipanarsi della sua interpretazione per grandi
blocchi concettuali, ideologici e politici, puntualmente disattesi,
come si mostra, nella prassi degli uomini politici (non
tutti, ovviamente) della Prima Repubblica: dal centrismo
degasperiano, aperto alle istanze liberali ma subito entrato in
agonia, alla graduale ma comunque poco ragionata, per alcuni
irragionevole, apertura dei post-dossettiani ai socialisti nenniani autonomisti
per caso; dal centro-sinistra, palestra per immaturi venditori di
libretti dei sogni, al compromesso per niente storico tra la Dc abbarbicata al potere
e il Pci berligueriano, ancora ideologicamente arcaico; per
finire con il socialismo craxiano, prometeico tentativo di
condizionare Pci e Dc, culminato prosaicamente, via CAF, nella disastrosa
crociera senza ritorno di Tangentopoli.
Insomma, il dramma
che abbiamo davanti è quello di una «democrazia bloccata». Ma lasciamo la
parola a Bedeschi: «Da Togliatti a Berlinguer […] il Pci, in tutte le sue
componenti rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla
democrazia occidentale. Il principale partito di opposizione […] restò sempre,
sostanzialmente, un partito antisistema. E se a ciò si aggiunge che anche
la destra missina rimase, durante tutta la Prima Repubblica, nostalgica e fascista, il
carattere “bloccato” della nostra democrazia emerge in tutta la sua
drammaticità».
Democrazia
“bloccata” è sinonimo di democrazia senza alternanza, ossia di un
sistema politico privo della «grande [e] fondamentale risorsa dei sistemi
liberaldemocratici». Dove «chi viene sconfitto va all’opposizione, chi
vince va al governo, e così via, seguendo, di volta in volta le scelte degli
elettori. In questo senso «l’alternanza è […] un grande strumento di
ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro irrobustimento ideale e pratico
(nell’arte di governo)». Purtroppo, prosegue Bedeschi, «nell’Italia della Prima
Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito la DC , e alcuni partiti suoi alleati, sono stati
“condannati” a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico. Dei suoi grand commis , dei suoi “esperti”,
dei suoi tecnici ecc. Di qui, anche un continuo aumento della corruzione,
grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della
Prima Repubblica, sulla quale ho insistito più volte nelle pagine di questo
libro» (pp. 337-338).
Bedeschi tocca, e
brillantemente, anche altre questioni. Ne ricordiamo solo alcune: la
straripante e soffocante cultura statalista della Democrazia
cristiana e del Partito comunista, non del tutto sgradita neppure al
socialismo craxiano, un tema al quale sono dedicate pagine illuminanti; il
controverso dibattito sul ruolo del fascismo nella storia
d’Italia e nella dialettica rifondativa repubblicana, argomento svolto
con misura, chiarezza e metro defeliciano; la questione non meno
importante - perché dal ritmo binario… - del
collateralismo sindacale al Pci e dell’immaturità sociale di alcuni
grandi imprenditori e banchieri italiani; la gracilità politica,
nonostante il vivace impegno intellettuale, del liberalismo italiano nelle sue
varie tendenze.
Di grandissimo
interesse - un piccolo gioiello di analisi storiografica - le dense
pagine dedicate al “lungo Sessantotto”, visto giustamente in certi suoi
aspetti, non secondari, come cesura storica dalle conseguenze negative.
Osserva Bedeschi: « Si affermò nella mentalità del Sessantotto una
profonda, irrimediabile frattura fra passato e presente, fra retaggio culturale
e azione attuale, fra tradizione e impegno politico. Era un fatto nuovo nella
storia italiana, che avrebbe avuto grandissime conseguenze negli anni a venire.
Sorse infatti una forma mentis
che negava ogni rapporto fra le generazioni passate e quelle presenti. Il
passato era solo da scomunicare e da rinnegare; esso non lasciava nessuna
eredità da accogliere e da elaborare» (p. 204).
Un linea di frattura
prolungatasi, purtroppo, nella cosiddetta Seconda Repubblica.
Ma questa è un’altra storia... Alla quale, ci auguriamo,
Giuseppe Bedeschi possa dedicare un nuovo libro, altrettanto
profondo e interessante.
Carlo Gambescia
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