*********************senza "metapolitica" si finisce sempre per fare cattiva "politica"*******************
sabato 30 novembre 2013
venerdì 29 novembre 2013
Nulla di nuovo
sotto
il sole
Il Cavaliere è
“finito” o no? Dalla lettura degli editoriali apparsi ieri sui
principali quotidiani italiani sembra prevalere, pur con toni diversi (anche
accesi nei titoli), un atteggiamento di cautela: dai più
accaniti nemici, armati di machete (Il Fatto, “l’Unità” , “la Repubblica ” ) ai nemici
in guanti gialli ( “Corriere della Sera”, “La Stampa ”,
"Messaggero", "Avvenire") fino ai descamisados
berlusconiani (“il Giornale”, “Libero”, Il Foglio, “Il Tempo”).
Ovviamente, semplifichiamo...
Però l’impressione è che i timori dei nemici (
di una improvvisa risurrezione) e le paure degli amici ( dell’eterno
riposo anticipato) abbiano contribuito, mescolandosi insieme, a
reprimere qualsiasi grido di gioia o rabbia per la débâcle
del Cavaliere. Il che spiega pure le piazze viola e
azzurre, tutto sommato sparute e silenti, come del resto la compostezza,
con qualche eccezione, dei senatori in Aula.
Diciamo quindi
che la cautela è d’obbligo. Un grande direttore del passato, Mario
Missiroli, se redivivo, parlerebbe di “vigilia dell’incertezza”
(attenzione, non " nell' " ma "dell' ") ...
Berlusconi, nonostante l'età, non pare disposto alla resa, neppure davanti, come si vocifera, a un mandato di arresto. Tuttavia, la congiuntura politica non pare favorevole al Cavaliere: le elezioni politiche a breve, in cui spera, non sono gradite al Quirinale. Almeno fino a quando non sarà varata una nuova legge elettorale, sulla quale per ora non c'è alcun accordo tra destra e sinistra.
Berlusconi, nonostante l'età, non pare disposto alla resa, neppure davanti, come si vocifera, a un mandato di arresto. Tuttavia, la congiuntura politica non pare favorevole al Cavaliere: le elezioni politiche a breve, in cui spera, non sono gradite al Quirinale. Almeno fino a quando non sarà varata una nuova legge elettorale, sulla quale per ora non c'è alcun accordo tra destra e sinistra.
Probabilmente
la decadenza di Berlusconi prolunga ma non rende più
facile il cammino del Governo. Napolitano vuole una verifica parlamentare
per favorire la nascita di un nuova maggioranza senza Forza Italia. Ma,
quanto potrà sopravvivere un Letta bis aggrappato al Quirinale e al pugno
di voti, politicamente costosi, degli alfaniani? Senza dimenticare la
scelte, di sicuro non simpatetiche, del segretario Pd
prossimo venturo: come noto, sia Renzi che Cuperlo, sebbene per
ragioni diverse, non vedono di buon occhio l'ascesa di Letta
e quindi la sopravvivenza del Governo.
Siamo in alto mare.
Perciò si andrà avanti alla giornata, sperando nei venti favorevoli, non così
vicini, della ripresa economica. Nulla di nuovo sotto il sole rispetto
alla routine post 1945. Purtroppo, a
differenza di quel che scrive un editorialista di destra
innamorato oltre che di se stesso dei barocchismi storici (per
stupire "colleghi" più ignoranti di lui), l'Italia di oggi non
ha nulla a che spartire con la crisi della "Roma
tardorepubblicana" . Quella discendeva da un' imponente processo
plurisecolare di crescita politica e sociale, innescato dalle
Guerre puniche, questa, invece, deriva da una pura e semplice
campagna di delegittimazione politica, scatenata da alcuni magistrati
politicamente ispirati, e meno che ventennale. E Sallustio, che egli
cita senza avere letto, se non su Wikipedia, ne aveva
perfettamente intuito (Ferrabino docet ), anche per
condizione personale, l'innovativo significato storico.
Carlo Gambescia
***
A proposito di
"delegittimazione" politica...
di Teodoro Klitsche
de la Grange
Nell’overdose di
dibattiti sulla decadenza di Berlusconi, quasi tutti incentrati, specie da
sinistra – ma non solo – sulla legalità o meno della vicenda, n’è risultato
quasi del tutto assente l’aspetto politico principale. Che non è quello, caro
ai causidici di mano sinistra, della legalità, ma delle conseguenze politiche
di una tale decisione. Con le quali si deve intendere,
alzando il tiro della analisi, quali conseguenze
politico-istituzionali – anche a medio termine – può avere una decisione del
genere.
Se fosse vero che il
diritto ha sostituito la politica, tale domanda non avrebbe senso: ma dato che
non ci risulta che questa sostituzione sia avvenuta, malgrado gli auspici di
qualche costituzionalista da rotocalco, è lecito porsela.
È successo tante
volte nella storia – anzi è la regola dei cambiamenti di regime e/o
costituzione – che a un potere legale subentri un potere
che legale non è; di guisa che, per così dire, l’illegalità è
il vero motore del cambiamento.
Maurice Hauriou e
Santi Romano (il secondo ancor più del primo) si erano posti il problema – solo
per citare i giuristi; ma è chiaro che questo è implicito nella teoria della
successione delle forme di governo, da Aristotele a Machiavelli, nell’ascesa e
decadenza delle èlites politiche di Pareto e Mosca e risparmiamo al lettore
tutti coloro (tanti) che se ne sono occupati. Per cui se è vero che un governo
(un atto, una condotta o quant’altro) è legale se conforme alle norme
sostanziali e procedurali stabilite, ma non è detto che i “sudditi” (e anche
altri) accettino tale legalità e che debbano consentire a un potere perché
legale.
Tanto per ricordare
un esempio – tra quelli della storia moderna, oltretutto ampiamente “trattato”,
il maresciallo Pétan fu legalmente eletto Presidente della
Repubblica francese nel giugno 1940, e forse all’epoca aveva pure il consenso
della maggioranza dei cittadini. De Gaulle oppose subito che egli e i suoi
francesi liberi erano il pays réel, cioè la Francia reale,
Pétain e i “vichissois” quella legale. Ma dato che, in meno di tre anni il
maresciallo perse il consenso della maggioranza, e l’unico esercito francese
combattente realmente era quello del generale de Gaulle, il presidente legale della
Francia si ridusse a comandare in un castello tedesco, prima di subire un
(brutto) processo in Francia.
Ora se l’Italia,
come scritto nella Costituzione, è una democrazia e il popolo è sovrano,
che qualcuno (magistratura o senato che sia) decida di escludere
dal Parlamento un senatore regolarmente eletto, e che ha il consenso
di circa un terzo dei votanti, significa in primo luogo, che quel Parlamento
perde gran parte della sua rappresentatività, perché un Parlamento
privo del capo dell’opposizione è un organo che fa della rappresentanza (meglio
della rappresentatività) una burla: come quelli che, mantenuti dalle varie
dittature del secolo scorso, ma rigidamente monopartitici, avevano soprattutto
la funzione di “plaudire al Duce” (o al Führer o al Gensek) e non di
rappresentare il pluralismo delle opinioni e degli interessi presenti nel
paese, come nelle democrazie liberali; ciò non toglie che fossero “legali”.
Tuttavia erano così
impossibilitati a costruire un vero strumento d’integrazione, e più
precisamente di quella che un altro acuto giurista come Smend chiamava integrazione
funzionale, la quale si realizza attraverso procedure che consentono la
sintesi sociale e che “mirano a rendere comune un qualsiasi
contenuto spirituale o a rafforzare l’esperienza vissuta della
comunanza”.
Per cui la prima e
più importante conseguenza politica non è, come pensano i causidici (tutti
contenti) - di aver “applicato la legge” - ma più semplicemente che è stato, da
e con quella votazione, delegittimato e depotenziato il
Parlamento; si è allargato il cuneo, già notevole, tra legalità e legittimità.
Si comincia così e si finisce magari con la constatazione della (totale)
inutilità di poteri legali non sostenuti da consenso legittimante.
E come diceva
Talleyrand, politicamente questo “è peggio di un crimine, è un errore”.
Errore che purtroppo
stiamo pagando e pagheremo tutti e non solo chi l’ha commesso.
Teodoro Klitsche
de la Grange
Teodoro Klitsche
de la Grange è avvocato, giurista, direttore del
trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra
i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di
Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia
della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va
lo Stato? (2009), Funzionarismo (Liberilibri, in stampa)
giovedì 28 novembre 2013
Il libro della settimana: Giuseppe Bedeschi, La prima Repubblica
(1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Rubbettino 2013, pp.
354, Euro 19,00.
Non è facile
indicare cosa leggere sulla storia della Repubblica, in
particolare la Prima : un
Titanic istituzionale apparentemente indistruttibile fino
all'urto mortale contro l’iceberg Tangentopoli.
In argomento, sono
reperibili molti buoni libri, ma di solito consigliamo ad amici, lettori,
studenti Una storia
della Repubblica (Rizzoli) di
Giano Accame, brillante scrittore e giornalista di destra e Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio) di Silvio Lanaro,
uomo di sinistra e acuto storico dell’Università di Padova. Tra l’altro,
i due studiosi, oggi scomparsi, si stimavano. Chissà, ora di lassù…
Accame si concentra
magistralmente sull’identità italiana, Lanaro sulle discontinuità sociali
e antropologiche. Cosicché i due libri si integrano a vicenda. E
senza cadere nella retorica celebrativa o di parte tratteggiano lo
scrupoloso affresco di un popolo che, in fin dei conti,
nel secondo dopoguerra si è mostrato più maturo della sua
stessa classe politica. Del resto che cosa ha rappresentato
Tangentopoli, al netto delle strumentalizzazione politiche e giudiziarie?
Se non la disperata richiesta dal basso di una
nuova classe politica? Finalmente all’altezza di un’ Italia
moderna, desiderosa di lavorare, produrre, studiare, inventare? E
perché no, anche divertirsi?
Sul problema
dell’inadeguatezza della classe politica si concentra invece il notevole
libro di Giuseppe Bedeschi, storico della filosofia che non
ha bisogno di alcuna presentazione, La
prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile
(Rubbettino). Un testo che d’ora in avanti consiglieremo -
ecco il perché del lungo preambolo… - come terza
lettura “obbligatoria”, anche perché va a colmare un deficit per così dire
politico, trattandosi dell’ opera di uno studioso liberale.
Ma c’è un altro
aspetto da sottolineare. Come per i due libri ricordati, anche il lavoro
di Bedeschi è interpretativo. Quindi per un verso si fonda
sull’uso sapiente e discriminante di ottime fonti secondarie,
per l’altro prende slancio argomentando intorno a un’idea-forza
storiografica. Per farla breve: se l’opera di Accame indaga ildramatis
personae, quella di Lanaro approfondisce le strutture antropologiche
e sociali, il testo di Bedeschi, come accennato, allarga
l’analisi ai problemi dell’integrazione politica. E
con l’ occhio di un filosofo politico assai attento ai
reali rapporti di forza. Cosa vogliamo dire? Che Bedeschi,
ottimo storico della filosofia per l'occasione trasformatosi in
sagace storico della politica italiana, riesce ad affrontare
e sciogliere il nodo della difficile convivenza tra concetti
politici e pratica dei medesimi, rimettendo la filosofia politica
di ispirazione liberale sulle forti gambe di una analisi della politica
concreta. Sotto questo punto di vista il libro ha un eccellente valore
metodologico.
Il che spiega
pure il dipanarsi della sua interpretazione per grandi
blocchi concettuali, ideologici e politici, puntualmente disattesi,
come si mostra, nella prassi degli uomini politici (non
tutti, ovviamente) della Prima Repubblica: dal centrismo
degasperiano, aperto alle istanze liberali ma subito entrato in
agonia, alla graduale ma comunque poco ragionata, per alcuni
irragionevole, apertura dei post-dossettiani ai socialisti nenniani autonomisti
per caso; dal centro-sinistra, palestra per immaturi venditori di
libretti dei sogni, al compromesso per niente storico tra la Dc abbarbicata al potere
e il Pci berligueriano, ancora ideologicamente arcaico; per
finire con il socialismo craxiano, prometeico tentativo di
condizionare Pci e Dc, culminato prosaicamente, via CAF, nella disastrosa
crociera senza ritorno di Tangentopoli.
Insomma, il dramma
che abbiamo davanti è quello di una «democrazia bloccata». Ma lasciamo la
parola a Bedeschi: «Da Togliatti a Berlinguer […] il Pci, in tutte le sue
componenti rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla
democrazia occidentale. Il principale partito di opposizione […] restò sempre,
sostanzialmente, un partito antisistema. E se a ciò si aggiunge che anche
la destra missina rimase, durante tutta la Prima Repubblica, nostalgica e fascista, il
carattere “bloccato” della nostra democrazia emerge in tutta la sua
drammaticità».
Democrazia
“bloccata” è sinonimo di democrazia senza alternanza, ossia di un
sistema politico privo della «grande [e] fondamentale risorsa dei sistemi
liberaldemocratici». Dove «chi viene sconfitto va all’opposizione, chi
vince va al governo, e così via, seguendo, di volta in volta le scelte degli
elettori. In questo senso «l’alternanza è […] un grande strumento di
ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro irrobustimento ideale e pratico
(nell’arte di governo)». Purtroppo, prosegue Bedeschi, «nell’Italia della Prima
Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito la DC , e alcuni partiti suoi alleati, sono stati
“condannati” a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico. Dei suoi grand commis , dei suoi “esperti”,
dei suoi tecnici ecc. Di qui, anche un continuo aumento della corruzione,
grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della
Prima Repubblica, sulla quale ho insistito più volte nelle pagine di questo
libro» (pp. 337-338).
Bedeschi tocca, e
brillantemente, anche altre questioni. Ne ricordiamo solo alcune: la
straripante e soffocante cultura statalista della Democrazia
cristiana e del Partito comunista, non del tutto sgradita neppure al
socialismo craxiano, un tema al quale sono dedicate pagine illuminanti; il
controverso dibattito sul ruolo del fascismo nella storia
d’Italia e nella dialettica rifondativa repubblicana, argomento svolto
con misura, chiarezza e metro defeliciano; la questione non meno
importante - perché dal ritmo binario… - del
collateralismo sindacale al Pci e dell’immaturità sociale di alcuni
grandi imprenditori e banchieri italiani; la gracilità politica,
nonostante il vivace impegno intellettuale, del liberalismo italiano nelle sue
varie tendenze.
Di grandissimo
interesse - un piccolo gioiello di analisi storiografica - le dense
pagine dedicate al “lungo Sessantotto”, visto giustamente in certi suoi
aspetti, non secondari, come cesura storica dalle conseguenze negative.
Osserva Bedeschi: « Si affermò nella mentalità del Sessantotto una
profonda, irrimediabile frattura fra passato e presente, fra retaggio culturale
e azione attuale, fra tradizione e impegno politico. Era un fatto nuovo nella
storia italiana, che avrebbe avuto grandissime conseguenze negli anni a venire.
Sorse infatti una forma mentis
che negava ogni rapporto fra le generazioni passate e quelle presenti. Il
passato era solo da scomunicare e da rinnegare; esso non lasciava nessuna
eredità da accogliere e da elaborare» (p. 204).
Un linea di frattura
prolungatasi, purtroppo, nella cosiddetta Seconda Repubblica.
Ma questa è un’altra storia... Alla quale, ci auguriamo,
Giuseppe Bedeschi possa dedicare un nuovo libro, altrettanto
profondo e interessante.
Carlo Gambescia
mercoledì 27 novembre 2013
Teodoro Klitsche de la Grange recensisce per i lettori
di Metapolitics
l’ultima
fatica di Francesco Bucci
Scalfari,
“intellettuale
universale”o “dilettante”?
universale”o “dilettante”?
|
Francesco Bucci, Eugenio Scalfari. L’intellettuale
dilettante, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2013, pp. 158, € 14,50 .
In questo volume che può dirsi anticipato nelle ultime pagine di quello precedente su Galimberti, l’autore fa le bucce a Scalari, facendolo precedere da una considerazione che illustra il carattere, il senso e il limite della critiche – non poche – rivoltegli: “Eugenio Scalfari è stato un grande direttore di giornale ed è tuttora un grande giornalista. I suoi editoriali di politica, di economia, di finanza, di costume sono esemplari per lucidità di analisi e chiarezza espositiva”.
Ma quando, circa
vent’anni fa, lasciò la direzione di “Repubblica”, ha iniziato un percorso
“nuovo e difficile … di trasformarsi in saggista e di occuparsi … dei massimi
sistemi”. Fatto sta che – scrive Bucci – ha iniziato a pubblicare un libro dopo
l’altro… “Libri con i quali si inoltra, con piglio gagliardo e passo sicuro a
dispetto dell’età, nei più vari campi del sapere: filosofia, letteratura,
storia, psicologia, arte, scienza”; “il guaio è, però, che di errori marchiani,
di spropositi e di veri e propri sproloqui abbondano anche i libri di ES,
nonché gli articoli nei quali egli, atteggiandosi a 'intellettuale universale',
si avventura in terreni che non gli sono congeniali”; e si può aggiungere
all’elenco anche contraddizioni. Non è possibile riferire tutti i campi dello
scibile - tanti – in cui l’occhiuta analisi dell’autore ha rilevato
le mende attribuite a Scalfari: la varietà dei temi affrontati dal
“fondatore” renderebbe questa recensione un trattato.
Ma un paio di
considerazioni specifiche occorre farle.
La prima è quella
connessa al lavoro di giornalista – e di grande direttore di giornale – di
Scalfari. Un giornalista è, fra le figure moderne, come sosteneva – tra gli
altri – Spengler, quella più vicina all’oratore, al retore dell’antichità. E
quali sono fine e metodo fondamentali della retorica? Perelman risponde; la
persuasione dell’uditorio, da realizzare, (principalmente) utilizzando
argomenti condivisi dagli ascoltatori. Se si va ad analizzare i passi di
Scalfari riportati da Bucci si nota che si basano in gran parte su idola
tribus condivisi solo (o prevalentemente) da un uditorio di sinistra e
in genere fedele ad un certo “tipo” (moderno) di opinioni condivise. D’altra
parte sarebbe impossibile fare dal nulla un giornale di successo che, non
dimentichiamolo, è una grande impresa che vive delle “rimesse” dei lettori, se
non se ne vellicassero le convinzioni.
Ma questo – che per
un giornalista è una dote – è spesso un limite decisivo per un pensatore: lo
riduce a correre appresso ai luoghi comuni, a dare risposte in modo (fin
troppo) prevedibile e spesso errato. A scambiare cioè l’originalità (e spesso
la verità) con il consenso.
La seconda è
l’analisi delle idee di Scalfari sulla morale: “Il fondamento della morale è l’
«istinto di sopravvivenza della specie», che è innato in ciascun uomo”. Solo un
istinto altrettanto forte e radicato dell’istinto di sopravvivenza
dell’individuo può infatti reggere “di fronte a una forza invincibile
dell’amore verso sé, alla radice saldissima dell’egoismo”.
A prescindere dalla
commistione tra natura ed etica e al problema che pone, ovvero di conciliare la
necessità con il libero arbitrio ed il dovere, quel che appare assai gracile di
questa concezione è non notare che ciò che induce al sacrificio dell’egoismo
individuale è l’appartenenza sociale, o meglio comunitaria. Un uomo può
arrivare – e arriva – al punto di morire e sacrificare il proprio interesse per
qualcosa di super-individuale, ma questo non è la specie umana o l’umanità,
ma la comunità politica (di solito, ma anche altri tipi di coesioni
sociali) cui appartiene.
Solo che le comunità
politiche esistono in uno stato di ostilità potenziale, che
spesso si trasforma in guerra. Cosa unica tra gli esseri viventi, in cui
l’aggressività intraspecifica si esercita in forme che non giungono
all’uccisione, tanto meno tra gruppi organizzati. Scriveva Proudhon che la
guerra è nell’essenza dell’uomo perché “l’idea di guerra involge, domina, regge
con la religione, l’universalità dei rapporti sociali. Tutto nella storia
dell’umanità, la suppone. Nulla si spiega senza di lei; nulla esiste senza di
lei: chi sa la guerra, sa il tutto del genere umano”.
E tanti altri hanno
scritto cose simili. Ma la guerra è potenzialmente (vedi quella atomica)
distruttiva dell’umanità e addirittura (forse) di gran parte della vita
animale. Del perché Scalfari non abbia notato che l’altruismo si ferma a
livello comunitario e si “esercita” a spese di altri gruppi umani, appare
chiaro: la negazione della guerra, della sua insopprimibilità, come
dell’ostilità e delle conseguenze della
contrapposizione amico-nemico è tra i capisaldi della modernità
utopistica, e delle aspirazioni relative. Che non è il caso di richiamare alla
realtà, ma è comodo ed opportuno cullarvisi dentro.
Teodoro Klitsche de
la Grange
Teodoro Klitsche de la
Grange è avvocato, giurista, direttore del
trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra
i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di
Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia
della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va
lo Stato? (2009).Funzionarismo (Liberilibri,
in stampa)
martedì 26 novembre 2013
Costanzo Preve discriminato?
È la sociologia
bellezza…
Discriminato,
emarginato, ignorato sono queste le parole che ricorrono nel
profluvio di necrologi in Rete dedicati allo scomparso Costanzo
Preve. Discriminato a sinistra, emarginato dal mondo accademico,
ignorato dai media.
Sono affermazioni esatte. Anche se, a dire il vero, si tratta, per ogni pensatore rivoluzionario, di una condizione ideale. Che però da sola non basta. Perché? Il pensiero non conformista ha bisogno di un’altra condizione ancora più importante che però, come mostra la storia del Novecento, finora non si è verificata proprio nelle società “rivoluzionate” grazie alle idee rivoluzionarie: la libertà.
Sono affermazioni esatte. Anche se, a dire il vero, si tratta, per ogni pensatore rivoluzionario, di una condizione ideale. Che però da sola non basta. Perché? Il pensiero non conformista ha bisogno di un’altra condizione ancora più importante che però, come mostra la storia del Novecento, finora non si è verificata proprio nelle società “rivoluzionate” grazie alle idee rivoluzionarie: la libertà.
Si pensi al
pensatore rivoluzionario, comunemente ritenuto il più grande di tutti.
Dove sviluppò le sue idee Marx? Non in Germania, neppure nella più
liberale Francia, ma in Inghilterra, la patria del liberalismo
politico ed economico. Perciò il pensiero critico - a maggior
ragione quello rivoluzionario - per svilupparsi sembra necessitare
di un clima di libertà. Altrimenti rischia di morire.
Cosa vogliamo
dire? Che un conto è venire ignorati intellettualmente dal
mainstream editoriale, un altro essere arrestati e finire in
prigione solo perché si sia manifestata l’idea, magari
in privato fidandosi dell' amico, di scrivere un certo libro contro lo
"stato delle cose".
Preve, non ignorava tutto
questo. Una volta mi raccontò, tra il serio e il
faceto, che da giovane, durante un viaggio Oltercortina, si accorse, e
con il dolore del comunista convinto, che la gente comune con cui parlava,
manifestando tutto il suo entusiasmo, lo guardava con sospetto… Preve da persona colta e intelligente qual era, sapeva benissimo che l’Occidente godeva e gode di una libertà, micro o macro che sia, altrove inesistente. E di questo clima di libertà si è giovato come pensatore non conformista. Quel che però non riusciva a comprendere, probabilmente a causa dei suoi nobili slanci utopici, è che ogni società, passata, presente, futura, aveva, ha e avrà i suoi meccanismi sociologici di legittimazione e formazione del consenso: semplificando, il proprio politicamente corretto. Pertanto, il vero problema è quello del “dosaggio” storico della libertà. Il che dipende dalla qualità delle classi dirigenti, dalle risorse, dalle circostanze, eccetera. Insomma, esistono ed esisteranno sempre società più libere, meno libere, prive di libertà. Sarà pure banale asserirlo, ma la perfezione non è di questo mondo. Fermo restando che senza libertà, in senso assoluto, non può fiorire alcun pensiero critico, né possono nascere pensatori come Marx o Preve.
Carlo Gambescia
lunedì 25 novembre 2013
Cara donna Mestizia,
non pensino che in caso di decadenza io non
reagisca!
Dudù
Caro Dudù,
ancora chirurgia plastica?!
* * *
Cara donna Mestizia,
firmato l’accordo con i tranvieri dell’AMT
proposto da Comune di Genova e Regione Liguria, ma è polemica sulle modalità di
voto. "Questo voto non può essere valido - ha detto un lavoratore Amt
all'uscita della Sala della Chiamata - ed è una presa in giro. All'interno
della sala c'erano persone non di Amt. Inoltre, molti di quelli che dovevano
votare erano fuori oppure a fumare. Tutto si è svolto velocemente, senza
capirci granché".
Tramviere Anonimo
Caro Tramviere Anonimo,
così va la vita: “tutto si è svolto
velocemente, senza capirci un gran che.”
* * *
Cara donna Mestizia,
fanno un deserto e lo chiamano Europa.
Conte Nipote
Caro conte Nipote,
Le rammento com’è andata a Teutoburgo. Fossi
in Lei, me ne resterei Tacito.
* * *
Cara donna Mestizia,
piove, governo ladro!
Peppe Grilletto
Caro Peppe Grilletto,
sì; ma stia attento che Le si bagnano le
polveri.
* * *
Cara donna Mestizia,
com’è bella giovinezza!
Renzolino il Primo Cittadino
Caro Renzolino il Primo Cittadino,
che si fugge tuttavia; e attenzione, che nel
diman non v’è certezza.
* * *
Cara donna Mestizia,
e questa IMU?
Per Piccina Che Tu Sia
Caro/a Per Piccina Che Tu Sia,
al
governo casa Sua e casa mia sembra sempre una badia.
Roberto
Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, èSorelle
d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi,
regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede
anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento,
dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...
domenica 24 novembre 2013
Con
la morte di Costanzo
Preve l’anticapitalismo italiano, nelle sue varie
tendenze politiche, perde il maggiore protagonista. Nella prima metà
degli anni Duemila ebbi modo di seguirlo editorialmente come autore e al
contempo frequentarlo come uomo. E, a un decennio di
distanza, non posso non riconoscere l’eccellenza dell’uno e dell’altro.
Naturalmente,
parliamo di un pensiero anti, e perciò come ogni antismo non
privo di chiusure, ovviamente non ravvisabili - anzi
addirittura viste come meriti - da coloro che ne condividevano
e condividono l’impostazione ideologica. Parliamo, purtroppo,
di celebrazioni passive che, soprattutto negli ultimi
anni, hanno finito per non favorire uno sviluppo
più fecondo della sua ricerca anche in altre direzioni.
All’epoca, provai a fargli scoprire (e scrivere di) altre cose. Rammento, ad esempio, la mia proposta di mettere mano a un saggio sul Marx di Gentile, da studiare partendo dall’interpretazione di Augusto Del Noce. Preve lesse, compulsò e alla fine mi disse, con grande onestà, che voleva e poteva scrivere solo di quel che conosceva a fondo.
Ne ricordo anche la curiosità per la vita politica e culturale americana: reputandomi un conoscitore, mi chiedeva sempre informazioni e notizie, con una vivacità di pensiero e un rispetto per gli States assai lontani da certo rozzo antiamericanismo all’italiana.
Difficilmente dimenticherò le nostre lunghe discussioni su un suo possibile libro - da me consigliato - intorno al concetto di decadenza. Progetto, purtroppo, mai decollato.
All’epoca, provai a fargli scoprire (e scrivere di) altre cose. Rammento, ad esempio, la mia proposta di mettere mano a un saggio sul Marx di Gentile, da studiare partendo dall’interpretazione di Augusto Del Noce. Preve lesse, compulsò e alla fine mi disse, con grande onestà, che voleva e poteva scrivere solo di quel che conosceva a fondo.
Ne ricordo anche la curiosità per la vita politica e culturale americana: reputandomi un conoscitore, mi chiedeva sempre informazioni e notizie, con una vivacità di pensiero e un rispetto per gli States assai lontani da certo rozzo antiamericanismo all’italiana.
Difficilmente dimenticherò le nostre lunghe discussioni su un suo possibile libro - da me consigliato - intorno al concetto di decadenza. Progetto, purtroppo, mai decollato.
Preve
apprezzava anche la sociologia, da lui
correttamente interpretata come scienza dedita allo
studio dell’ordine e del conflitto. Non eravamo però d’accordo su un punto
metodologico fondamentale. Per farla breve: io
ritenevo le costanti sociologiche ( o metapolitiche) insopprimbili
e, cosa più importante, a prescindere dal tipo di società storica;
Preve invece credeva fortemente nella realizzazione di una
società postcapitalista, capace di andare oltre il ciclo istituzione-movimento,
o se si vuole conservazione-progresso. Inutile, qui, sottolineare la forte
impronta platonica, hegeliana, marxiana e lukácsiana, del suo
pensiero. E, di riflesso, la sua fede
nella plasmabilità dell’uomo e nel superamento -
ecco il punto in discussione - di qualsiasi ontologia
sociale ma non dell'ontologia, a prescindere da come egli la
qualificasse, di matrice marxiana, che veniva perciò
usata al tempo stesso come mezzo interpretativo e come fine storico.
Il che - sia detto con immutata stima umana e intellettuale - confondendo realtà storica (come "sono" le cose) e valori (come "devono" andare) non contribuiva né contribuisce a sciogliere alcun nodo. E non solo del pensiero previano.
Caro Costanzo, che la
terra ti sia lieve. Il che - sia detto con immutata stima umana e intellettuale - confondendo realtà storica (come "sono" le cose) e valori (come "devono" andare) non contribuiva né contribuisce a sciogliere alcun nodo. E non solo del pensiero previano.
Carlo Gambescia
sabato 23 novembre 2013
Frammenti di poesia
La morte è alla curva della strada
di
Fernando Pessoa
La morte è alla curva della strada.
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, odo il tuo passo
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
la menzogna non ha nido.
Mai nessuno s'è perduto.
Tutto è verita e cammino.
(Trad. di Luigi Panarese)
venerdì 22 novembre 2013
Privatizzazioni
Perché
non cominciare dalla Sanità?
A fronte del nostro
debito pubblico i dieci/dodici miliardi di privatizzazioni
annunciati da Letta sono un’inezia. Fumo da gettare negli
occhi della Ue, confidando nella benevolenza, qualcuno
direbbe il buon cuore, dei Commissari di Bruxelles,
soprattutto ora che Berlusconi, non amato in Europa, sembra fuori
dai giochi.
In realtà, in
Italia il vero nodo da sciogliere resta quello della spesa sanitaria che
si aggira intorno ai cento/centoventi miliardi annui, grosso modo l’otto per
cento del Pil. Ma nessuno ha il coraggio di parlare apertamente di privatizzazione.
Per quale ragione?
I politici
perché hanno paura di perdere la gestione, soprattutto sul piano
regionale, della cassaforte-sanità… I medici perché hanno l’Intra
Moenia… I sindacati perché contrari per principio… I privati del
settore perché al rischio di impresa privilegiano le nicchie o
rendite del sistema misto… I cittadini perché quando si
tratta di salute preferiscono pagare e tacere, mostrando
di gradire il certo per l’incerto.
Di conseguenza
si preferisce rilanciare il pubblico evocando le mitiche
virtù della razionalizzazione. Tradotto: un taglio qui,
un taglio lì, senza però cambiare direzione di marcia e procrastinando i
miglioramenti. In questo modo, inevitabilmente, la qualità dei servizi,
già cattiva, peggiora, ma, d'altra parte, neppure si recide
la speranza che le cose, grazie ai tagli di oggi, possano
migliorare domani. Del resto solo così - spostando sempre più
avanti la linea del traguardo - possono continuare a dettar
legge le varie lobby: politici, medici, sindacati, e
imprenditoria privata assistita… E il cittadino? Viene considerato un
fesso da intimorire agitando lo spauracchio del “salto nel buio” o
da rincuorare evocando la sanità pubblica perfetta di
un futuro a portata di mano.
Che aggiungere? Continuiamo a farci del male.
Che aggiungere? Continuiamo a farci del male.
Carlo Gambescia
giovedì 21 novembre 2013
I libri della settimana: Ayn Rand, La virtù dell’egoismo,
Liberilibri 2003 , a cura di Nicola Iannello, pp. 150, euro 14,46;
Id., Antifona,
Introduzione di Gianfranco de Turris, Liberilibri 2003, euro 13,00;
Id.,La notte del 16 gennaio, Liberilibri 2005, pp. 144, Euro
13,00.
Cosa c’è di meglio
del parlar chiaro? Anzi del “filosoficamente” parlar chiaro? Nulla.
Si può apprezzare un autore per le idee. Ma quando le idee, oltre ad
essere interessanti, sono esposte con un colpo di
spada, cosa chiedere di meglio? Parliamo di Ayn Rand, al secolo Alissa
Rosenbaum, nata a Pietroburgo nel 1905, morta a New York nel
1982: laureata in storia, guida turistica, aspirante costruttrice
di grattacieli e abile ricostruttrice di vite altrui, quindi scrittrice,
commediografa, sceneggiatrice, pensatrice, costretta a
passare, avventurosamente, attraverso il cerchio di fuoco
bolscevico, per approdare negli Stati Uniti, dove trascorrerà
un' esistenza ricca di eventi, scoperte, creazioni, conflitti e
amori. Per chiunque desideri saperne di più rinviamo al sito dell'omonimo
istituto a lei dedicato: http://www.aynrand.org/site/PageServer?pagename=index .
Nell’opera, in primis letteraria (mai dimenticarlo), della
Rand, pensiamo a romanzi importanti che hanno avuto versioni
cinematografiche come Noi vivi e La
fonte mervigliosa o che meriterebbero come La rivolta di Atlante,
emergono con prepotenza due universi, non contrapposti ma ben
temperati: individuo e vita; l’uno rinforza l’altra,
per poi galoppare insieme con lo stesso vigore della
wagneriana "Cavalcata delle Valchirie".
C’è una pagina
bellissima di Noi vivi, dove la Rand affida il suo credo alle parole di
Andrei Tagarov, giovane funzionario della polizia segreta comunista in via di
doloroso ( e presto tragico) ravvedimento. Ascoltiamole, perché, in poche
chiare battute, è racchiusa la sua filosofia, poi
affermatasi come oggettivismo etico:
«Camerati! Fratelli! Ascoltatemi. Ascoltate voi, guerrieri consacrati di una nuova vita! Siete sicuri di ciò che state facendo? Nessuno può dire agli uomini lo scopo per cui devono vivere. Nessuno può assumersi tale diritto se non vuol trovarsi davanti un mostro, un orrore che occhio umano non può sopportare. Perché vedete, ci sono negli uomini, nei migliori di noi che sono al di sopra di qualunque Stato, di qualunque collettività, cose troppo preziose, troppo sacre, cose che nessuna mano estranea deve osar toccare. Guardate in voi stessi, sinceramente, senza paura; guardatelo e non ditelo a me, non ditelo a nessuno, ditelo a voi stessi: perché vivete? Non vivete forse per voi stessi e solo per voi stessi? Per una verità più alta che è la vostra verità? Chiamatela la vostra ragione di vita, il vostro amore la vostra causa… non è essa sempre la vostra causa? Date la vostra vita, morire per il vostro ideale, non è forse sempre il vostro ideale? Ogni uomo onesto vive per se stesso. Quelli che non vivono così non vivono affatto. Non potete mutarlo, perché così è nato l’uomo: solo, completo, fine a se stesso. Non potete mutarlo più di quanto non possiate far nascere gli uomini con un occhio solo, invece di due, e con tre gambe, due cuori […]. Nessuna volontà del partito potrà mai uccidere negli uomini quella cosa che sa dire “Io”. [Perciò] che cosa stiamo facendo? Vogliamo sfamare l’umanità affamata per farla vivere? O vogliamo strangolare la sua vita per sfamarla?» ( A. Rand, Noi vivi, Baldini & Castoldi, Milano, 1940, IX edizione, pp. 414-415, i corsivi sono nel testo).
Ecco il punto, di
regola, dimenticato dai collettivisti: solo il singolo può
sapere quale sia il suo bene, dal momento che ogni uomo resta l'
unico artefice del proprio destino. Si dirà, banalità individualiste...
In realtà, ammesso e non concesso che lo siano, sono parole
talmente banali al punto di essere dimenticate: oggi,
purtroppo, si preferisce prestare ascolto a chiunque offra scuse
"collettive" belle e pronte (la società, i "ricchi",
i "militari", gli "speculatori" eccetera) per
giustificare o mascherare vergognosi fallimenti individuali. Viviamo in
una società di individualisti assistiti: si aspira a una libertà senza
rischi e responsabilità soggettive; quando si vince il merito è
dell'individuo, quando si perde la colpa è sempre degli altri e in particolare
dello stato "latitante", of
course. Insomma, l'individualista
che cerca protezione vuole privatizzare i profitti e socializzare le perdite...
Ma torniamo alla Rand. Il resto della sua opera, così fieramente avversa a qualsiasi forma di individualismo assistito, è una ricca, appassionata, enorme e dotta chiosa, all’accorato discorso di Taganov. L’uomo vuole vivere, affermando la propria individualità, e la vita, rettamente intesa, quale rispetto dei contratti e della parola data, non può che essere creativa affermazione del proprio Io, anche a costo di un duro ma leale scontro con gli avversari in difesa delle proprie idee. Pertanto l’egoismo è un vivere per se stessi, senza nulla togliere agli altri in termini di vitalità, rispetto e onore, come ben si mostra ne La virtù dell’egoismo (Liberilibri):
«Il principio sociale basilare dell’etica oggettivista è che, proprio come la vita è un fine in sé, così ogni essere umano vivente è un fine in sé, non il mezzo per i fini o il benessere degli altri, e quindi, che l’uomo deve vivere il proprio interesse, senza sacrificare se stesso agli altri né sacrificando gli altri a se stesso. Vivere per il proprio interesse significa che il raggiungimento della propria felicità è il più alto scopo morale dell’uomo» (A. Rand, La virtù dell’egoismo, cit., p. 29. il corsivo è nel testo).
Ma torniamo alla Rand. Il resto della sua opera, così fieramente avversa a qualsiasi forma di individualismo assistito, è una ricca, appassionata, enorme e dotta chiosa, all’accorato discorso di Taganov. L’uomo vuole vivere, affermando la propria individualità, e la vita, rettamente intesa, quale rispetto dei contratti e della parola data, non può che essere creativa affermazione del proprio Io, anche a costo di un duro ma leale scontro con gli avversari in difesa delle proprie idee. Pertanto l’egoismo è un vivere per se stessi, senza nulla togliere agli altri in termini di vitalità, rispetto e onore, come ben si mostra ne La virtù dell’egoismo (Liberilibri):
«Il principio sociale basilare dell’etica oggettivista è che, proprio come la vita è un fine in sé, così ogni essere umano vivente è un fine in sé, non il mezzo per i fini o il benessere degli altri, e quindi, che l’uomo deve vivere il proprio interesse, senza sacrificare se stesso agli altri né sacrificando gli altri a se stesso. Vivere per il proprio interesse significa che il raggiungimento della propria felicità è il più alto scopo morale dell’uomo» (A. Rand, La virtù dell’egoismo, cit., p. 29. il corsivo è nel testo).
Il nemico principale della Rand, piaccia o meno, è il "noi". Si legge in Antifona(Liberilibri), dove sono descritti, in anticipo su Orwell, gli infami meccanismi psicologici della società totalitaria, basati, per l'appunto, sul "noi":
«Al principio l’uomo fu reso schiavo dagli dèi: ma spezzò le loro catene. Poi fu reso schiavo dalla sua nascita, dalla sua stirpe, dalla sua razza. Ma spezzò le loro catene. Egli dichiarò a tutti i suoi fratelli che un uomo ha dei diritti che né dio né re né altri uomini possono portargli via […]. Ed egli rimase sulla soglia della libertà per la quale era stato versato il sangue dei scoli che lo avevano preceduto. Ma poi cedette tutto ciò che aveva conquistato, e cadde più in basso del suo inizio selvaggio. Cosa fece accadere ciò? Quale disastro tolse agli uomini la ragione? Quale sferza li frustò sino a farli cadere in ginocchio in uno stato di vergogna e sottomissione? L’adorazione della parola “Noi” (A. Rand, Antifona,cit., p. 84).
E qui torna a proposito il dialogo tra Kira Argounova (Ayn Rand) e Victor Dunaev, giovane e abile astro nascente della società sovietica, tratto da Noi vivi:
« - E verso chi avrei dei doveri Victor “[è Kira a parlare, ndr] – Verso la società. – E che cos’è la società? – Se me lo permetti, Kira, ti dirò che questa è una domanda infantile. – Ma - disse Kira, con dolci occhi spalancati - non capisco verso chi debba avere dei doveri. Verso l’inquilina della porta accanto? O vero il miliziano all’angolo? O verso il commesso della cooperativa? O verso il vecchio che ho visto nella lunga fila, il terzo dalla porta, con un paniere usato ed un cappello da donna? – La società Kira, è un complesso meraviglioso. - Se scrivi [rispose Kira, ndr] un’intera riga di zeri, è sempre… niente.» ( A. Rand, Noi vivi, cit., p. 34)
La società come
riga di zeri... spiega l'inevitabile conflitto
tra convenzioni sociali e creatività individuale,
contrasto ben tratteggiato nel dramma teatrale La notte del 16 gennaio (Liberilibri), brillante antesignano
dei legal thriller di oggi, tra l’altro tuttora
rappresentato e con successo ( http://www.youtube.com/watch?v=xrxmCJlrjQ8 ), dove intorno al processo
per l' omicidio di un uomo d'affari, si scontrano, come
osserva la Rand ,
« due modi di
affrontare l’esistenza: l’appassionata auto-affermazione, la fiducia in se
stessi, l’ambizione, l’audacia, l’indipendenza – contro la convenzionalità, il
servilismo, l’invidia, l’odio, la sete per il potere» (A. Rand, La notte del 16 gennaio, cit., p. 13).
Insomma,
Un problema non da poco: anche perché un fascismo senza "noi" non sarebbe più tale, come d'altronde il capitalismo senza alcun "Io". E
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