sabato 30 novembre 2013























Una parola
di Paul Celan

Una parola
Lo sai, un cadavere,
dobbiamo lavarla, dobbiamo pettinarla,
dobbiamo disporre
verso il cielo i suoi occhi


                 (t rad. di Mariano Marianelli)  

venerdì 29 novembre 2013

 

La decadenza di Berlusconi
Nulla di nuovo 
sotto il sole





Il Cavaliere è “finito”  o no? Dalla lettura degli editoriali apparsi  ieri sui principali quotidiani italiani sembra prevalere, pur con toni diversi (anche accesi nei titoli), un atteggiamento di cautela:  dai più accaniti  nemici, armati di machete (Il Fatto, “l’Unità” , “la Repubblica” ) ai nemici in guanti gialli  ( “Corriere della Sera”, “La Stampa”, "Messaggero", "Avvenire")  fino ai descamisados  berlusconiani (“il Giornale”, “Libero”,   Il Foglio, “Il Tempo”).
Ovviamente,  semplifichiamo...  Però l’impressione è che  i   timori  dei  nemici ( di una improvvisa risurrezione) e le  paure degli amici ( dell’eterno riposo anticipato) abbiano contribuito, mescolandosi insieme,   a  reprimere  qualsiasi   grido di gioia o rabbia per la débâcle  del  Cavaliere.  Il che  spiega pure le piazze viola e azzurre, tutto sommato sparute e silenti, come del resto  la compostezza, con qualche eccezione,  dei senatori in Aula.
Diciamo quindi  che la cautela è d’obbligo. Un grande direttore del passato, Mario Missiroli, se redivivo,  parlerebbe di “vigilia dell’incertezza” (attenzione,  non " nell' " ma "dell' ") ... 
Berlusconi, nonostante l'età,  non pare disposto  alla  resa, neppure davanti, come si vocifera, a un  mandato di arresto. Tuttavia, la congiuntura politica non pare favorevole  al Cavaliere: le elezioni politiche a breve,  in cui spera,  non sono  gradite al Quirinale. Almeno fino a quando non sarà varata una nuova legge elettorale, sulla quale per ora non c'è alcun accordo tra destra e sinistra.
Probabilmente  la decadenza di Berlusconi  prolunga ma non  rende più  facile il cammino del Governo. Napolitano vuole una verifica parlamentare per favorire la nascita di un nuova maggioranza senza Forza Italia.  Ma, quanto potrà sopravvivere un Letta bis aggrappato al Quirinale e al  pugno di voti, politicamente costosi, degli alfaniani? Senza dimenticare  la  scelte, di sicuro non simpatetiche,  del  segretario Pd prossimo venturo: come noto,  sia Renzi che Cuperlo, sebbene  per ragioni diverse,  non  vedono di buon occhio l'ascesa di Letta  e quindi la sopravvivenza del  Governo.  
Siamo in alto mare. Perciò si andrà avanti alla giornata, sperando nei venti favorevoli, non così vicini, della ripresa economica.  Nulla di nuovo sotto il sole rispetto alla routine post 1945.  Purtroppo, a differenza  di quel che scrive  un  editorialista di destra innamorato oltre che di se stesso  dei barocchismi storici  (per stupire "colleghi" più ignoranti di lui),   l'Italia di oggi non ha nulla a che spartire con la  crisi della "Roma tardorepubblicana" . Quella discendeva da un' imponente  processo plurisecolare  di crescita politica e sociale,  innescato dalle Guerre puniche, questa, invece,  deriva  da una pura e semplice campagna di delegittimazione politica, scatenata da alcuni  magistrati politicamente ispirati,  e meno che ventennale. E Sallustio, che egli  cita senza avere  letto,  se non su Wikipedia, ne  aveva perfettamente intuito (Ferrabino docet ),  anche per  condizione personale,   l'innovativo significato storico.         

Carlo Gambescia              

***


A proposito di "delegittimazione" politica... 
di Teodoro Klitsche de la Grange



Nell’overdose di dibattiti sulla decadenza di Berlusconi, quasi tutti incentrati, specie da sinistra – ma non solo – sulla legalità o meno della vicenda, n’è risultato quasi del tutto assente l’aspetto politico principale. Che non è quello, caro ai causidici di mano sinistra, della legalità, ma delle conseguenze politiche di una tale decisione. Con le quali   si deve intendere,   alzando il tiro della  analisi,  quali conseguenze politico-istituzionali – anche a medio termine – può avere una decisione del genere.
Se fosse vero che il diritto ha sostituito la politica, tale domanda non avrebbe senso: ma dato che non ci risulta che questa sostituzione sia avvenuta, malgrado gli auspici di qualche costituzionalista da rotocalco, è lecito porsela.
È successo tante volte nella storia – anzi è la regola dei cambiamenti di regime e/o costituzione – che a un potere legale subentri un potere che legale non è; di guisa che, per così dire, l’illegalità è il vero motore del cambiamento.
Maurice Hauriou e Santi Romano (il secondo ancor più del primo) si erano posti il problema – solo per citare i giuristi; ma è chiaro che questo è implicito nella teoria della successione delle forme di governo, da Aristotele a Machiavelli, nell’ascesa e decadenza delle èlites politiche di Pareto e Mosca e risparmiamo al lettore tutti coloro (tanti) che se ne sono occupati. Per cui se è vero che un governo (un atto, una condotta o quant’altro) è legale se conforme alle norme sostanziali e procedurali stabilite, ma non è detto che i “sudditi” (e anche altri) accettino tale legalità e che debbano consentire a un potere perché legale.
Tanto per ricordare un esempio – tra quelli della storia moderna, oltretutto ampiamente “trattato”, il maresciallo Pétan fu legalmente eletto Presidente della Repubblica francese nel giugno 1940, e forse all’epoca aveva pure il consenso della maggioranza dei cittadini. De Gaulle oppose subito che egli e i suoi francesi liberi erano il pays réel, cioè la Francia reale, Pétain e i “vichissois” quella legale. Ma dato che, in meno di tre anni il maresciallo perse il consenso della maggioranza, e l’unico esercito francese combattente realmente era quello del generale de Gaulle, il presidente legale della Francia si ridusse a comandare in un castello tedesco, prima di subire un (brutto) processo in Francia.
Ora se l’Italia, come scritto nella Costituzione, è una democrazia  e il popolo è sovrano, che qualcuno (magistratura o senato che sia) decida di escludere dal  Parlamento un senatore regolarmente eletto, e che ha il consenso di circa un terzo dei votanti, significa in primo luogo, che quel Parlamento perde gran parte della sua rappresentatività, perché un Parlamento privo del capo dell’opposizione è un organo che fa della rappresentanza (meglio della rappresentatività) una burla: come quelli che, mantenuti dalle varie dittature del secolo scorso, ma rigidamente monopartitici, avevano soprattutto la funzione di “plaudire al Duce” (o al Führer o al Gensek) e non di rappresentare il pluralismo delle opinioni e degli interessi presenti nel paese, come nelle democrazie liberali; ciò non toglie che fossero “legali”.
Tuttavia erano così impossibilitati a costruire un vero strumento d’integrazione, e più precisamente di quella che un altro acuto giurista come Smend chiamava integrazione funzionale, la quale si realizza attraverso procedure che consentono la sintesi sociale e che “mirano a rendere comune un qualsiasi contenuto  spirituale o a rafforzare l’esperienza vissuta della comunanza”.
Per cui la prima e più importante conseguenza politica non è, come pensano i causidici (tutti contenti) - di aver “applicato la legge” - ma più semplicemente che è stato, da e con quella votazione, delegittimato e depotenziato il Parlamento; si è allargato il cuneo, già notevole, tra legalità e legittimità. Si comincia così e si finisce magari con la constatazione della (totale) inutilità di poteri legali non sostenuti da consenso legittimante.
E come diceva Talleyrand, politicamente questo “è peggio di un crimine, è un errore”.
Errore che purtroppo stiamo pagando e pagheremo tutti e non solo chi l’ha commesso.
Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (Liberilibri, in stampa)

giovedì 28 novembre 2013


Il libro della settimana: Giuseppe Bedeschi, La prima  Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Rubbettino 2013, pp. 354,  Euro 19,00. 


Non è facile indicare cosa leggere  sulla  storia della Repubblica,  in particolare  la Prima:  un  Titanic istituzionale apparentemente  indistruttibile  fino all'urto mortale contro l’iceberg Tangentopoli. 
In argomento, sono reperibili molti buoni libri, ma di solito consigliamo ad  amici, lettori, studenti  Una storia della Repubblica (Rizzoli) di Giano Accame, brillante scrittore e giornalista di destra  e  Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio) di Silvio Lanaro,  uomo di sinistra e acuto storico dell’Università di Padova. Tra l’altro, i due studiosi, oggi scomparsi,  si stimavano. Chissà, ora di lassù…
Accame si concentra magistralmente  sull’identità italiana, Lanaro sulle discontinuità sociali e antropologiche.  Cosicché i due libri si integrano  a vicenda. E  senza cadere nella retorica celebrativa o di parte  tratteggiano lo scrupoloso  affresco di  un popolo  che, in fin dei conti,  nel secondo dopoguerra  si è mostrato  più maturo della sua stessa classe politica.  Del resto che cosa ha  rappresentato Tangentopoli, al netto delle strumentalizzazione politiche e giudiziarie?   Se non  la disperata  richiesta  dal basso  di una nuova classe politica?  Finalmente  all’altezza di un’ Italia moderna, desiderosa di lavorare,  produrre, studiare,  inventare? E perché no,  anche divertirsi? 
Sul problema dell’inadeguatezza della classe politica si concentra invece il notevole  libro di  Giuseppe Bedeschi,  storico della filosofia che non ha bisogno di alcuna  presentazione,  La prima  Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile  (Rubbettino). Un testo che d’ora in avanti  consiglieremo  -  ecco il perché del  lungo  preambolo… - come  terza lettura “obbligatoria”, anche perché va a colmare un deficit per così dire politico, trattandosi dell’ opera  di uno studioso liberale.  
Ma c’è un altro aspetto da sottolineare. Come per i due libri ricordati,  anche il lavoro di Bedeschi è  interpretativo. Quindi per  un verso si fonda sull’uso  sapiente e discriminante di  ottime  fonti secondarie, per l’altro  prende slancio argomentando intorno a un’idea-forza storiografica.   Per farla breve: se l’opera di Accame indaga ildramatis personae, quella di Lanaro approfondisce  le strutture antropologiche e sociali, il  testo di  Bedeschi, come accennato,  allarga l’analisi  ai problemi   dell’integrazione  politica.  E con l’ occhio  di un  filosofo politico assai  attento ai  reali rapporti di forza.   Cosa vogliamo dire? Che Bedeschi, ottimo  storico della filosofia per l'occasione trasformatosi in  sagace storico della politica italiana,  riesce  ad affrontare e sciogliere  il nodo della difficile convivenza  tra concetti politici e pratica dei medesimi,  rimettendo  la filosofia politica di ispirazione liberale sulle forti  gambe di una analisi della politica concreta. Sotto questo punto di vista  il libro ha un eccellente valore metodologico.  
Il che spiega  pure  il dipanarsi della sua interpretazione  per grandi  blocchi concettuali,  ideologici e politici, puntualmente disattesi, come  si mostra,  nella prassi degli uomini  politici (non tutti, ovviamente) della Prima Repubblica:  dal  centrismo degasperiano, aperto alle istanze liberali  ma subito  entrato in agonia,  alla  graduale  ma comunque poco ragionata, per alcuni irragionevole, apertura dei post-dossettiani ai socialisti nenniani autonomisti per caso; dal centro-sinistra,  palestra per immaturi venditori di libretti dei sogni,  al compromesso  per niente storico  tra la Dc abbarbicata al potere  e  il  Pci berligueriano, ancora ideologicamente arcaico; per finire con il socialismo craxiano,  prometeico tentativo  di condizionare Pci e Dc,  culminato prosaicamente, via CAF, nella disastrosa  crociera senza ritorno di Tangentopoli.
Insomma, il dramma che abbiamo davanti  è quello di una «democrazia bloccata». Ma lasciamo la parola a Bedeschi: «Da Togliatti a Berlinguer […] il Pci, in tutte le sue componenti rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla democrazia occidentale. Il principale partito di opposizione […] restò sempre, sostanzialmente, un partito antisistema. E se a ciò  si aggiunge che anche la destra missina rimase, durante tutta la Prima Repubblica, nostalgica e fascista, il carattere “bloccato” della nostra democrazia  emerge in tutta la sua drammaticità».
Democrazia “bloccata”  è sinonimo di democrazia senza alternanza, ossia  di un sistema politico privo  della «grande [e] fondamentale risorsa dei sistemi liberaldemocratici». Dove  «chi viene sconfitto va all’opposizione, chi vince va al governo, e così via, seguendo, di volta in volta le scelte degli elettori.  In questo senso «l’alternanza è […] un grande strumento di ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro irrobustimento ideale e pratico (nell’arte di governo)». Purtroppo, prosegue Bedeschi, «nell’Italia della Prima Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito la DC, e alcuni partiti suoi alleati, sono stati “condannati” a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico. Dei suoi grand commis   , dei suoi “esperti”, dei suoi tecnici ecc. Di qui, anche un continuo aumento della corruzione, grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della Prima Repubblica, sulla quale ho insistito più volte nelle pagine di questo libro» (pp. 337-338).
Bedeschi tocca, e brillantemente,  anche altre questioni. Ne ricordiamo solo alcune: la straripante e soffocante  cultura statalista della Democrazia cristiana  e del Partito comunista, non del tutto sgradita neppure al socialismo craxiano, un tema al quale sono dedicate pagine illuminanti; il controverso  dibattito  sul ruolo  del fascismo nella storia d’Italia e nella dialettica rifondativa repubblicana, argomento svolto con  misura, chiarezza e metro defeliciano; la questione non meno importante -  perché dal ritmo  binario… -   del collateralismo sindacale al Pci  e  dell’immaturità sociale di alcuni  grandi imprenditori e banchieri italiani;  la gracilità politica, nonostante il vivace impegno intellettuale, del liberalismo italiano nelle sue varie tendenze.  
Di grandissimo interesse -  un piccolo gioiello di analisi storiografica -  le dense  pagine dedicate al “lungo Sessantotto”, visto giustamente in certi suoi aspetti,  non secondari, come cesura storica dalle conseguenze negative.  Osserva  Bedeschi: « Si affermò nella mentalità del Sessantotto una profonda, irrimediabile frattura fra passato e presente, fra retaggio culturale e azione attuale, fra tradizione e impegno politico. Era un fatto nuovo nella storia italiana, che avrebbe avuto grandissime conseguenze negli anni a venire. Sorse infatti una forma mentis  che negava ogni rapporto fra le generazioni passate e quelle presenti. Il passato era solo da scomunicare e da rinnegare; esso non lasciava nessuna eredità da accogliere e da elaborare» (p. 204).

Un linea di frattura  prolungatasi, purtroppo,  nella cosiddetta Seconda Repubblica.  Ma questa è un’altra storia... Alla quale, ci auguriamo,  Giuseppe  Bedeschi  possa dedicare un nuovo libro,  altrettanto profondo e  interessante.  

Carlo Gambescia

mercoledì 27 novembre 2013



Teodoro Klitsche de la Grange recensisce  per i  lettori di Metapolitics  
l’ultima fatica di Francesco Bucci
Scalfari, “intellettuale 
universale”o “dilettante”?


Francesco Bucci, Eugenio Scalfari. L’intellettuale dilettante, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2013, pp. 158, € 14,50 .

In questo volume che può dirsi anticipato nelle ultime pagine di quello precedente su Galimberti, l’autore fa le bucce a Scalari, facendolo precedere da una considerazione che illustra il carattere, il senso e il limite della critiche – non poche – rivoltegli:  “Eugenio Scalfari è stato un grande direttore di giornale ed è tuttora un grande giornalista. I suoi editoriali di politica, di economia, di finanza, di costume sono esemplari per lucidità di analisi e chiarezza espositiva”.
Ma quando, circa vent’anni fa, lasciò la direzione di “Repubblica”, ha iniziato un percorso “nuovo e difficile … di trasformarsi in saggista e di occuparsi … dei massimi sistemi”. Fatto sta che – scrive Bucci – ha iniziato a pubblicare un libro dopo l’altro… “Libri con i quali si inoltra, con piglio gagliardo e passo sicuro a dispetto dell’età, nei più vari campi del sapere: filosofia, letteratura, storia, psicologia, arte, scienza”; “il guaio è, però, che di errori marchiani, di spropositi e di veri e propri sproloqui abbondano anche i libri di ES, nonché gli articoli nei quali egli, atteggiandosi a 'intellettuale universale', si avventura in terreni che non gli sono congeniali”; e si può aggiungere all’elenco anche contraddizioni. Non è possibile riferire tutti i campi dello scibile - tanti – in cui l’occhiuta analisi dell’autore ha rilevato le  mende attribuite a Scalfari: la varietà dei temi affrontati dal “fondatore” renderebbe questa recensione un trattato.
Ma un paio di considerazioni specifiche occorre farle.
La prima è quella connessa al lavoro di giornalista – e di grande direttore di giornale – di Scalfari. Un giornalista è, fra le figure moderne, come sosteneva – tra gli altri – Spengler, quella più vicina all’oratore, al retore dell’antichità. E quali sono fine e metodo fondamentali della retorica? Perelman risponde; la persuasione dell’uditorio, da realizzare, (principalmente) utilizzando argomenti condivisi dagli ascoltatori. Se si va ad analizzare i passi di Scalfari riportati da Bucci si nota che si basano in gran parte su idola tribus condivisi solo (o prevalentemente) da un uditorio di sinistra e in genere fedele ad un certo “tipo” (moderno) di opinioni condivise. D’altra parte sarebbe impossibile fare dal nulla un giornale di successo che, non dimentichiamolo, è una grande impresa che vive delle “rimesse” dei lettori, se non se ne vellicassero le convinzioni.
Ma questo – che per un giornalista è una dote – è spesso un limite decisivo per un pensatore: lo riduce a correre appresso ai luoghi comuni, a dare risposte in modo (fin troppo) prevedibile e spesso errato. A scambiare cioè l’originalità (e spesso la verità) con il consenso.
La seconda è l’analisi delle idee di Scalfari sulla morale: “Il fondamento della morale è l’ «istinto di sopravvivenza della specie», che è innato in ciascun uomo”. Solo un istinto altrettanto forte e radicato dell’istinto di sopravvivenza dell’individuo può infatti reggere “di fronte a una forza invincibile dell’amore verso sé, alla radice saldissima dell’egoismo”.
A prescindere dalla commistione tra natura ed etica e al problema che pone, ovvero di conciliare la necessità con il libero arbitrio ed il dovere, quel che appare assai gracile di questa concezione è non notare che ciò che induce al sacrificio dell’egoismo individuale è l’appartenenza sociale, o meglio comunitaria. Un uomo può arrivare – e arriva – al punto di morire e sacrificare il proprio interesse per qualcosa di super-individuale, ma questo non è la specie umana o l’umanità, ma  la comunità politica (di solito, ma anche altri tipi di coesioni sociali) cui appartiene.
Solo che le comunità politiche esistono in uno stato di ostilità potenziale, che spesso si trasforma in guerra. Cosa unica tra gli esseri viventi, in cui l’aggressività intraspecifica si esercita in forme che non giungono all’uccisione, tanto meno tra gruppi organizzati. Scriveva Proudhon che la guerra è nell’essenza dell’uomo perché “l’idea di guerra involge, domina, regge con la religione, l’universalità dei rapporti sociali. Tutto nella storia dell’umanità, la suppone. Nulla si spiega senza di lei; nulla esiste senza di lei: chi sa la guerra, sa il tutto del genere umano”.
E tanti altri hanno scritto cose simili. Ma la guerra è potenzialmente (vedi quella atomica) distruttiva dell’umanità e addirittura (forse) di gran parte della vita animale. Del perché Scalfari non abbia notato che l’altruismo si ferma a livello comunitario e si “esercita” a spese di altri gruppi umani, appare chiaro: la negazione della guerra, della sua insopprimibilità, come dell’ostilità e delle conseguenze della contrapposizione  amico-nemico è tra i capisaldi della modernità utopistica, e delle aspirazioni relative. Che non è il caso di richiamare alla realtà, ma è comodo ed opportuno cullarvisi dentro.
Teodoro Klitsche de la  Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).Funzionarismo (Liberilibri, in stampa)


martedì 26 novembre 2013

Costanzo Preve  discriminato? 
È la sociologia bellezza…




Discriminato, emarginato,  ignorato  sono queste le parole che ricorrono nel profluvio di necrologi in Rete dedicati  allo  scomparso Costanzo Preve. Discriminato a sinistra, emarginato dal mondo accademico,   ignorato dai media. 
Sono affermazioni esatte. Anche se,  a dire il vero,  si tratta,  per ogni pensatore rivoluzionario, di una condizione ideale.  Che però da sola non basta. Perché? Il  pensiero non conformista  ha bisogno di un’altra condizione ancora  più importante  che però,  come mostra la  storia del Novecento, finora non si è verificata proprio nelle società “rivoluzionate” grazie alle idee rivoluzionarie:  la libertà. 
Si pensi al pensatore rivoluzionario, comunemente ritenuto il  più grande di tutti.  Dove sviluppò  le sue idee Marx? Non in Germania, neppure nella più liberale Francia,  ma in  Inghilterra, la patria del liberalismo politico ed economico.  Perciò il  pensiero critico -  a maggior ragione quello  rivoluzionario -  per svilupparsi sembra necessitare  di un clima di libertà. Altrimenti rischia di  morire.
Cosa vogliamo dire?  Che un conto è venire  ignorati intellettualmente dal mainstream editoriale,  un altro essere arrestati e  finire in prigione solo perché  si  sia   manifestata  l’idea, magari in privato fidandosi dell' amico, di scrivere un certo libro contro  lo "stato delle cose".
Preve, non ignorava tutto questo.   Una volta  mi raccontò, tra il serio e il  faceto,  che da giovane, durante un viaggio Oltercortina, si accorse, e con il dolore del comunista convinto, che la gente comune con cui parlava, manifestando tutto  il suo entusiasmo,  lo guardava con sospetto… 
Preve da persona colta e intelligente qual era, sapeva benissimo  che l’Occidente godeva e gode  di una libertà, micro o macro che sia, altrove inesistente. E di questo clima  di libertà  si è  giovato come pensatore non conformista.  Quel che però  non riusciva a comprendere,  probabilmente a causa dei suoi nobili slanci utopici,  è che ogni società, passata, presente, futura,  aveva, ha e avrà  i suoi meccanismi sociologici di legittimazione e formazione del consenso: semplificando,  il proprio politicamente corretto.  Pertanto,  il vero  problema  è quello del “dosaggio” storico della libertà.  Il che  dipende dalla qualità delle classi dirigenti, dalle risorse, dalle circostanze, eccetera.  Insomma,  esistono ed esisteranno sempre società più libere, meno libere, prive di libertà.  Sarà pure banale asserirlo, ma  la perfezione non è di questo mondo.  Fermo restando che  senza libertà,  in senso assoluto,  non può  fiorire alcun  pensiero critico,   né possono   nascere  pensatori come  Marx o  Preve. 



Carlo Gambescia

lunedì 25 novembre 2013




Cara donna Mestizia,
non pensino che in caso di decadenza io non reagisca!
Dudù

Caro Dudù,
ancora chirurgia plastica?!
* * *
Cara donna Mestizia,
firmato l’accordo con i tranvieri dell’AMT proposto da Comune di Genova e Regione Liguria, ma è polemica sulle modalità di voto. "Questo voto non può essere valido - ha detto un lavoratore Amt all'uscita della Sala della Chiamata - ed è una presa in giro. All'interno della sala c'erano persone non di Amt. Inoltre, molti di quelli che dovevano votare erano fuori oppure a fumare. Tutto si è svolto velocemente, senza capirci granché".
Tramviere Anonimo

Caro Tramviere Anonimo,
così va la vita: “tutto si è svolto velocemente, senza capirci un gran che.”
* * *
Cara donna Mestizia,
fanno un deserto e lo chiamano Europa.
Conte Nipote

Caro conte Nipote,
Le rammento com’è andata a Teutoburgo. Fossi in Lei, me ne resterei Tacito.
* * *
Cara donna Mestizia,
piove, governo ladro!
Peppe Grilletto

Caro Peppe Grilletto,
sì; ma stia attento che Le si bagnano le polveri.
* * *
Cara donna Mestizia,
com’è bella giovinezza!
Renzolino il Primo Cittadino

Caro Renzolino il Primo Cittadino,
che si fugge tuttavia; e attenzione, che nel diman non v’è certezza.
* * *
Cara donna Mestizia,
e questa IMU?
Per Piccina Che Tu Sia

Caro/a Per Piccina Che Tu Sia,
al governo casa Sua e casa mia sembra sempre una badia.


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, èSorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

domenica 24 novembre 2013


La morte di Costanzo Preve
Costanzo Preve  (1943-2013)



Con la  morte di  Costanzo Preve  l’anticapitalismo  italiano, nelle sue varie tendenze politiche, perde il maggiore  protagonista. Nella prima metà degli anni Duemila ebbi  modo di seguirlo editorialmente come autore e al contempo frequentarlo come  uomo. E,  a un  decennio di distanza,  non posso non riconoscere l’eccellenza dell’uno e dell’altro.
Naturalmente, parliamo di un pensiero anti, e perciò come ogni antismo non  privo di chiusure, ovviamente  non ravvisabili  - anzi addirittura viste come meriti -  da coloro che ne condividevano e condividono  l’impostazione ideologica. Parliamo,  purtroppo,  di celebrazioni passive  che, soprattutto negli ultimi anni,  hanno  finito  per non favorire  uno sviluppo più  fecondo della sua  ricerca anche in altre direzioni.
All’epoca,  provai  a fargli scoprire (e  scrivere di)  altre cose.  Rammento, ad esempio,  la mia proposta  di mettere  mano a  un saggio sul  Marx di Gentile, da studiare  partendo dall’interpretazione di  Augusto Del Noce.  Preve lesse, compulsò e alla fine mi disse, con grande onestà, che voleva e poteva scrivere solo di quel  che conosceva a  fondo.
Ne ricordo anche la curiosità per la vita politica e culturale americana:  reputandomi un conoscitore,   mi chiedeva sempre informazioni  e  notizie,  con  una vivacità di pensiero e  un rispetto per gli  States assai lontani  da  certo rozzo antiamericanismo all’italiana.
Difficilmente dimenticherò le nostre lunghe discussioni  su un suo possibile  libro - da me consigliato - intorno al concetto di decadenza. Progetto, purtroppo, mai decollato.
Preve apprezzava  anche  la sociologia,  da lui correttamente  interpretata  come scienza dedita allo studio dell’ordine e del conflitto. Non eravamo però d’accordo su un punto metodologico  fondamentale. Per farla breve:  io ritenevo  le costanti sociologiche ( o metapolitiche) insopprimbili e, cosa più importante,   a prescindere dal tipo di società storica;  Preve invece credeva fortemente  nella  realizzazione di una società postcapitalista, capace di andare oltre il ciclo istituzione-movimento, o se si vuole conservazione-progresso. Inutile, qui, sottolineare la forte impronta  platonica, hegeliana, marxiana e lukácsiana, del suo pensiero.  E, di riflesso,  la sua  fede  nella  plasmabilità dell’uomo e  nel superamento -  ecco il  punto in discussione -   di qualsiasi ontologia sociale  ma  non  dell'ontologia, a prescindere da come egli la qualificasse, di  matrice  marxiana, che veniva perciò  usata al tempo stesso come  mezzo interpretativo e come  fine storico.
Il che  - sia detto con immutata  stima umana e  intellettuale -   confondendo realtà storica (come  "sono" le cose) e  valori (come "devono" andare)  non contribuiva né contribuisce  a sciogliere alcun nodo.  E non solo del pensiero previano.  
Caro Costanzo,  che la terra ti sia lieve. 


Carlo Gambescia 

sabato 23 novembre 2013

Frammenti di poesia

La morte è alla curva della strada
            di Fernando Pessoa  

La morte è alla curva della strada.
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, odo il tuo passo
esistere come io esisto.

La terra è fatta di cielo.
la menzogna non ha nido.
Mai nessuno s'è perduto.
Tutto è verita e cammino.

                            (Trad. di Luigi Panarese)

venerdì 22 novembre 2013

Privatizzazioni 
Perché 
non cominciare dalla Sanità?   




A fronte del nostro  debito pubblico i dieci/dodici miliardi di privatizzazioni  annunciati da Letta sono un’inezia. Fumo  da gettare  negli  occhi  della  Ue,  confidando nella benevolenza, qualcuno direbbe il buon cuore,   dei Commissari di Bruxelles, soprattutto  ora che Berlusconi, non amato in Europa, sembra  fuori dai  giochi.
In realtà,  in Italia il vero nodo da sciogliere resta  quello della spesa sanitaria che si aggira intorno ai cento/centoventi miliardi annui, grosso modo l’otto per cento del Pil. Ma nessuno ha il coraggio di  parlare apertamente di privatizzazione.   Per quale ragione?
I politici  perché hanno paura di perdere la gestione, soprattutto sul piano regionale, della cassaforte-sanità…  I medici  perché hanno l’Intra Moenia… I sindacati perché contrari per principio…   I privati del settore  perché al rischio di impresa privilegiano le nicchie o  rendite del sistema misto…  I cittadini perché  quando si tratta di salute preferiscono  pagare e  tacere,  mostrando  di gradire   il certo  per l’incerto.

Di conseguenza  si preferisce rilanciare il pubblico evocando  le mitiche  virtù  della razionalizzazione.  Tradotto: un taglio qui,  un taglio lì, senza però cambiare direzione di marcia e procrastinando i miglioramenti.  In questo modo, inevitabilmente,  la qualità dei servizi, già cattiva, peggiora,  ma,  d'altra parte, neppure si recide  la speranza che  le cose, grazie ai tagli di oggi, possano migliorare domani.  Del resto solo così -  spostando sempre più avanti la linea del traguardo -   possono  continuare  a dettar  legge le varie lobby:  politici, medici, sindacati, e imprenditoria  privata assistita… E il cittadino? Viene considerato un fesso da intimorire  agitando lo spauracchio del  “salto nel buio” o  da rincuorare evocando la  sanità pubblica perfetta  di  un futuro a portata di mano.
Che aggiungere? Continuiamo a farci del male.

Carlo Gambescia

giovedì 21 novembre 2013


I libri della settimana: Ayn Rand, La virtù dell’egoismo, Liberilibri  2003 , a cura di Nicola Iannello, pp. 150, euro 14,46;  Id., Antifona,  Introduzione di Gianfranco de Turris, Liberilibri  2003, euro 13,00; Id.,La  notte del 16 gennaio, Liberilibri  2005, pp. 144, Euro 13,00. 




Cosa c’è di meglio del parlar chiaro? Anzi del “filosoficamente” parlar chiaro?  Nulla.  Si può apprezzare un autore per le idee.  Ma quando le idee, oltre ad essere interessanti,   sono esposte  con un  colpo di spada, cosa chiedere di meglio? Parliamo di  Ayn Rand, al secolo Alissa Rosenbaum, nata a Pietroburgo nel 1905,  morta a New York  nel 1982:  laureata in storia, guida turistica,  aspirante costruttrice di grattacieli e abile ricostruttrice di vite altrui, quindi scrittrice, commediografa,  sceneggiatrice,  pensatrice, costretta a   passare, avventurosamente,  attraverso il cerchio di  fuoco bolscevico,  per  approdare negli Stati Uniti, dove trascorrerà  un' esistenza  ricca di eventi, scoperte, creazioni, conflitti e amori.  Per chiunque desideri saperne di più rinviamo al sito dell'omonimo istituto a lei dedicato: http://www.aynrand.org/site/PageServer?pagename=index .
Nell’opera, in primis letteraria (mai dimenticarlo), della Rand,  pensiamo a  romanzi importanti che hanno avuto versioni cinematografiche come Noi vivi e La fonte mervigliosa  o che meriterebbero come La rivolta di Atlante,  emergono  con prepotenza  due universi, non contrapposti ma ben temperati:  individuo e  vita;  l’uno rinforza l’altra,  per poi   galoppare  insieme  con lo stesso vigore della wagneriana "Cavalcata delle Valchirie".     






C’è una pagina bellissima di  Noi vivi,   dove  la Rand affida il suo credo alle parole di Andrei Tagarov, giovane funzionario della polizia segreta comunista in via di  doloroso ( e presto tragico) ravvedimento. Ascoltiamole, perché, in poche chiare battute, è   racchiusa  la sua  filosofia,  poi  affermatasi  come oggettivismo etico:

«Camerati! Fratelli!  Ascoltatemi. Ascoltate voi, guerrieri consacrati di una nuova vita! Siete sicuri di ciò che state facendo? Nessuno può dire  agli uomini lo scopo per cui devono vivere. Nessuno può assumersi tale diritto se non vuol trovarsi davanti un mostro, un orrore che occhio umano non può sopportare. Perché vedete, ci sono negli uomini, nei migliori di noi  che sono al di sopra di qualunque Stato, di qualunque collettività, cose troppo preziose, troppo sacre, cose che nessuna mano  estranea deve osar toccare. Guardate in voi stessi, sinceramente, senza paura; guardatelo e non ditelo a me, non ditelo a nessuno, ditelo a voi stessi: perché vivete? Non vivete forse per voi stessi e solo per voi stessi? Per una verità più alta che è la vostra verità? Chiamatela  la vostra ragione di vita, il vostro amore la vostra causa… non è essa sempre la 
vostra  causa?  Date la vostra vita, morire per il vostro ideale, non è forse sempre il vostro ideale? Ogni uomo onesto vive per se stesso. Quelli che non vivono così non vivono affatto. Non potete mutarlo,  perché così è nato l’uomo: solo, completo, fine a se stesso. Non potete mutarlo più di quanto non possiate far nascere gli uomini con un occhio solo, invece di due, e con tre gambe,  due cuori […]. Nessuna volontà del partito potrà mai uccidere negli uomini quella cosa che sa dire “Io”. [Perciò] che cosa stiamo facendo? Vogliamo sfamare l’umanità affamata per farla vivere? O vogliamo strangolare la sua vita per sfamarla?» ( A. Rand, Noi vivi, Baldini & Castoldi, Milano,  1940, IX edizione,  pp. 414-415, i corsivi sono nel testo).





Ecco il punto, di regola,  dimenticato dai collettivisti:  solo il singolo  può sapere quale sia il suo bene, dal momento che ogni uomo  resta  l' unico  artefice del proprio destino. Si dirà, banalità individualiste... In realtà, ammesso e non concesso che  lo siano,   sono parole  talmente banali   al punto di  essere dimenticate: oggi, purtroppo,  si preferisce   prestare ascolto a chiunque offra scuse "collettive" belle e pronte (la società,  i "ricchi", i "militari", gli "speculatori" eccetera)  per giustificare o mascherare vergognosi  fallimenti individuali. Viviamo in una società di individualisti assistiti:  si aspira a una libertà senza rischi  e responsabilità soggettive; quando si vince il merito è dell'individuo, quando si perde la colpa è sempre degli altri e in particolare dello stato "latitante", of course. Insomma,  l'individualista che cerca protezione vuole privatizzare i profitti e socializzare le perdite... 
Ma torniamo alla Rand. Il resto della sua  opera, così  fieramente avversa a qualsiasi forma di individualismo assistito,  è una ricca, appassionata, enorme e  dotta chiosa, all’accorato discorso di Taganov.  L’uomo vuole vivere, affermando la propria individualità, e la vita, rettamente intesa, quale  rispetto dei contratti e della parola data,  non può che essere creativa affermazione del proprio Io, anche a costo di un  duro ma leale scontro con gli avversari  in difesa delle proprie idee. Pertanto l’egoismo  è un vivere per se stessi,  senza nulla togliere agli altri in  termini di vitalità, rispetto e onore,  come  ben si mostra  ne La virtù dell’egoismo (Liberilibri):
 

«Il principio sociale basilare  dell’etica oggettivista è che, proprio come la vita è un fine in sé, così ogni essere umano vivente è un fine in sé, non il mezzo per i fini o il benessere degli altri, e quindi, che l’uomo deve vivere il proprio interesse, senza sacrificare se stesso agli altri né sacrificando gli altri a se stesso. Vivere per il proprio interesse significa che il raggiungimento della propria felicità  è il più alto scopo morale dell’uomo» (A. Rand, La virtù dell’egoismo, cit., p. 29. il corsivo è nel testo).



Il nemico principale della Rand, piaccia o meno, è il "noi". Si legge  in Antifona(Liberilibri), dove sono descritti, in anticipo su Orwell, gli infami meccanismi psicologici della società totalitaria, basati, per l'appunto,  sul "noi":

«Al principio l’uomo fu reso schiavo dagli dèi: ma spezzò le loro catene. Poi fu reso schiavo dalla sua nascita, dalla sua stirpe, dalla sua razza. Ma spezzò le loro catene. Egli dichiarò a tutti i suoi fratelli che un uomo ha dei diritti che né dio né  re né altri  uomini possono portargli via […]. Ed egli rimase sulla soglia della libertà per la quale era stato  versato il sangue dei scoli che lo avevano preceduto. Ma poi cedette tutto ciò che aveva  conquistato, e cadde  più in basso del suo inizio selvaggio. Cosa fece accadere ciò? Quale disastro tolse agli uomini la ragione? Quale sferza li frustò sino a farli cadere in ginocchio in uno stato di vergogna e sottomissione? L’adorazione  della parola “Noi” (A. Rand, Antifona,cit., p. 84).

E qui torna a proposito il  dialogo tra Kira Argounova (Ayn Rand) e Victor Dunaev,  giovane e abile  astro nascente della  società sovietica,  tratto da Noi vivi:

« - E verso chi avrei dei doveri Victor “[è Kira a parlare, 
ndr] – Verso la società. – E che cos’è la società? – Se me lo permetti, Kira,  ti dirò che questa è una domanda infantile. – Ma - disse Kira, con dolci occhi spalancati -  non capisco verso chi  debba avere dei doveri. Verso l’inquilina della porta accanto? O vero il miliziano all’angolo? O verso il commesso della cooperativa? O verso il vecchio che ho visto  nella lunga fila, il terzo dalla porta, con un paniere usato ed un cappello da donna? – La società Kira, è un complesso meraviglioso. - Se scrivi [rispose Kira, ndr] un’intera   riga di zeri, è sempre… niente.» ( A. Rand, Noi vivi, cit., p. 34)

La società come  riga  di  zeri...  spiega l'inevitabile conflitto  tra  convenzioni  sociali  e creatività  individuale, contrasto ben  tratteggiato nel dramma teatrale La notte del 16 gennaio (Liberilibri), brillante  antesignano dei legal thriller di oggi,  tra l’altro tuttora  rappresentato e con successo ( http://www.youtube.com/watch?v=xrxmCJlrjQ8  ),  dove intorno al  processo per l' omicidio di  un uomo d'affari, si scontrano, come osserva la Rand

« due modi di affrontare l’esistenza: l’appassionata auto-affermazione, la fiducia in se stessi, l’ambizione, l’audacia, l’indipendenza – contro la convenzionalità, il servilismo, l’invidia, l’odio, la sete per il potere» (A. Rand, La notte del 16 gennaio, cit., p. 13).





Insomma, la Rand   celebra l'individuo  a colpi di sciabola.   Il che spiega perché  nella sua  opera  alcuni hanno ravvisato  echi  nietzschiani (dalla pensatrice, come pare,  prima ammessi poi negati)  e addirittura evoliani.   Su quest'ultimo aspetto  si veda la brillante   Introduzione  di Gianfranco De Turris, dove sono evidenziate alcune fondamentali distinzioni tra le  varie forme di letteratura utopica e antiutopica.  Tuttavia, come del resto si  rileva,   tra l'antiutopia  individualista della Rand e  un «fascismo di destra, anticollettivista, antisocialista, individualista, elitario, aristocratico»  (G. de Turris, Introduzione a Antifona, cit., pp. XIX-XXXI),  si frappone  inevitabilmente la scelta  procapitalista  della pensatrice, agli antipodi di quella anticapitalista,  ipotizzata  dalle camicie nere italiane.
Un problema non da poco:  anche perché  un  fascismo senza   "noi"  non sarebbe più tale, come d'altronde il capitalismo senza alcun  "Io".  E la Rand proprio  su  questa differenza  ha edificato la sua filosofia, anzi, il suo grido di battaglia:  un appello che merita di essere ascoltato e apprezzato o comunque  letto e discusso con la più grande attenzione .