giovedì 10 ottobre 2013


Il libro della settimana: Marshall McLuhan, Intervista a Playboy. Un dialogo diretto con il gran sacerdote della cultura pop e il metafisico dei media, Edizione italiana e Postfazione di Luca Barra, Franco Angeli 2013, pp. 96,  Euro 15,00 .

http://www.francoangeli.it/

 Veramente felice l’idea di tradurre un’autentica chicca come l’intervista a “Playboy”  concessa da Marshall McLuhan al giornalista Eric Norden, anno di grazia 1969.  Il prodotto finito è un denso volumetto, ben curato  da Luca Barra,  per i tipi  della Franco Angeli,  nella collana “Comunicazione e Società”  diretta da Vanni Codeluppi.
Piccolo avviso, in stile Totò, per i lettori-guardoni  impenitenti: "Arrangiatevi!",  perché nel volume, come è giusto che sia,  non c'è alcuna riproposizione  della “Playmate” di quel numero, biondissima e ammiccante, magari tratta direttamente dalle pagine centrali, piuttosto calde, della famosa rivista  di " entertainment only men”:  uomini  che amavano mescolare, come si prediligeva nei pionieristici Sixty, e non solo negli Usa, belle curve e cultura pop, meglio ancora se di buon livello e soprattutto di  taglio  progressista, sempre con moderazione però.  Il che spiega la presenza  in  quelle pagine di McLuhan,  novello e  spassionato  esploratore degli effetti della tecnologia sulla cultura popolare. Quasi umana riprova (e  icona)  della sua famosa tesi.  Infatti,  il medium (“Playboy”) non poteva non essere anche il messaggio (le pop-idee) di McLuhan…              
Una volta fatte le presentazioni - e,  si spera, perdonate la battute, in particolare l'ultima -  va subito chiarito, e seriamente,  perché un libro come  Intervista a Playboy merita di essere letto.  A dire vero,  lo spiega  così  bene  nella Postfazione Luca Barra, al punto di rendere difficile la vita  del recensore.  Quattro le ragioni, che ovviamente sottoscriviamo.
La prima: «L’intervista a Playboy è [...]  per McLuhan una consacrazione intellettuale in chiave pop: da un lato, l'accettazione di una  élite letterata e salottiera, dall’altra, il simbolo di una forte traccia ormai lasciata dal teorico nellapopolar culture, oggetto studiato e forma della propria rappresentazione (p. 79). Proprio come, pur scherzando, si diceva...
La seconda: si tratta  di un «tentativo riuscito di rendere più accessibili a un vasto pubblico di lettori “generalisti” le idee e intuizioni di McLuhan […]. L’occasione di raccontare, riassumere e per certi versi sistematizzare le teorie delle studioso, in una sorta di “bignami” dei concetti fondamentali e di chiarimento adatto a tutti (o, almeno, a molti)» (pp. 79-80). Di qui, l’importanza di leggerlo, per arrivare  subito al nocciolo del suo pensiero.
La terza: l’intervista « può risultare un utile contributo per capire la generosità con cui McLuhan si getta nei dibattiti a lui contemporanei, sia le inevitabili controversie con cui il pensiero e i testi di McLuhan si sono dovuti costantemente confrontare, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo» (p. 85). Il che è verissimo. In Italia, ad esempio, Umberto Eco, può essere considerato  un mcluhaniano pentito.  
La quarta: l’intervista «costituisce un “grimaldello” con cui scassinare la complessità, e talvolta persino l’oscurità, di un pensiero che rimane ancora decisamente valido, di un classico con cui ogni studioso di media deve per forza confrontarsi» (p. 87).
Siamo troppo didascalici e, per cosi dire, troppo dalla parte del curatore? Diciamo che la Postfazione, come impone l’etichetta,  l’abbiamo letta, e con piacere,  alla fine,  dopo che si era già formata in noi un certa idea, naturalmente anche frutto di precedenti letture dell’opera di Mcluhan (si veda anche qui: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2011/04/mcluhan-e-pound-amici-non-per-caso.html ).  E quanto ora esporremo,  potrebbe rappresentare la quinta ragione per leggere Intervista a Playboy .

Fin dalle prime pagine il nostro pensiero è andato  a Gehlen  e alla sua tripartizione della tecnica come sostituto dell’organo, esonero dell’organo, superamento dell’organo. Tre concezioni ricondotte dallo studioso tedesco nell’alveo della ciclica ambivalenza di una tecnica,  antica quanto l’uomo,  perché «sempre servita ad aiutare a vivere e a far morire» (Prospettive antropologiche, il Mulino 1987, pp. 127-140). E così ci siamo chiesti:  E McLuhan?  Rispetto a questa posizione, tutto sommato equilibrata, dove e come si colloca? La risposta, crediamo,  sia in questo passo,  che  rappresenta l’essenza del pensiero mcluhaniano: «La maggior parte della gente, dai camionisti ai bramini letterari, ignora ancora del tutto cosa i media fanno loro; ignari che, dati i suoi pervasivi effetti sull’uomo,  è  il medium stesso che è il messaggio, e non il contenuto, e altrettanto ignari che il medium è anche ilmessaggio – che, lasciando da parte i giochi di parole, letteralmente interviene e satura e modella e trasforma ogni rapporto tra i sensi. Il contenuto o il messaggio di ogni singolo medium ha circa la stessa importanza delle decorazioni del rivestimento di una bomba atomica» (p. 16).
Ecco il punto  filosofico:  secondo McLuhan  la tecnica, mediatica o meno,  non è questione di contenuti  bensì di forma. Di conseguenza,   per usare il linguaggio di  Gehlen, la tecnica può sostituire, esonerare, superare,  non sulla base di scelte legate ai valori (il contenuto) ma di una forza propria,  se si vuole travolgente, che deriva dal suo essere (forma)  tecnica .
Di  colpo,  McLuhan  rovescia  il gigantesco e forse insolubile  problema  intorno al quale  si sono arrovellati,  solo per fare alcuni nomi importanti,  Simmel (in primis),  Sombart, Max Weber.  Per i quali, pur con sfumature differenti,  la tecnica  è contenuto (o valore) in conflitto con se stessa, ossia con la tecnica solidificatasi in  istituzione ( o forma).  Detto altrimenti:  per Simmel, Sombart, Weber, in ultima istanza, è sempre   il messaggio (contenuto) che fa il medium (forma),  non il contrario. 
Da ciò  probabilmente  deriva quel determinismo, per così dire,  della forma-tecnica, che sembra caratterizzare il pur geniale pensiero di McLuhan.  Come qui ad esempio: «Ogni volta che vediamo uno schermo tv o leggiamo un libro, stiamo assorbendo queste nostre estensioni nel nostro sistema individuale e provando l’esperienza di automatica “chiusura” o spostamento della percezione; non possiamo sfuggire a questo abbraccio perpetuo delle nostre tecnologie quotidiane […]. Adottando in misura consistente tutte queste tecnologia, inevitabilmente, ci leghiamo a loro come servo-meccanismo. Così per utilizzarle, dobbiamo servirle come facciamo con gli dei. L’eschimese è un servo-meccanismo del suo kayak, il cowboy del suo cavallo, il businessman del suo orologio, il cibernetico - e presto,  il mondo intero -  del suo computer. In altre parole,  il bottino appartiene al vincitore» (p. 65). 
Naturalmente,  al polo opposto ritroviamo il determinismo culturale di Oswald Spengler,  dove si  riconduce sistematicamente ogni  medium alla matrice culturale del messaggio (la forma al contenuto).  Senza dimenticare che lo stesso pensiero di  Gehlen   mostra  risvolti  di tipo sociologistico quando sembra difendere, e moralisticamente,  la prevalenza  delle istituzioni (forma) sulla cultura  degli individui (contenuto).        

Pertanto, come dire, ogni pensatore, soprattutto se originale, ha la sua pena...  Ragione  in più per leggere McLuhan, la cui originalità non può essere messa in dubbio. Magari partendo proprio dalla ghiotta  Intervista a Playboy.

Carlo Gambescia

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