martedì 8 gennaio 2013

Provocazioni
Le società possono 
fare a meno dei ricchi? 


Che il pauperismo  nelle  sue  versioni  marxiste o postmarxiste disprezzi la ricchezza  non è una novità. Quindi le dichiarazioni di Vendola  non sono particolarmente originali ("I super-ricchi devono andare al diavolo”http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2013/01/04/Monti-18-conferenza-stampa-simbolo-lista-_8026652.html  ).
Ora, lasciando da parte la questione di pura lana caprina della distinzione tra  ricchi e super-ricchi,  poniamoci una domanda squisitamente sociologica:  le società  possono fare a meno dei ricchi in quanto tali?   No, perché  la ricchezza, come elemento di distinzione sociale, ha sempre svolto due ruoli fondamentali.
Il primo rinvia alla ricaduta sociale della ricchezza come modello emulativo e consensuale;  il secondo rimanda alla ricchezza come veicolo economico di aggregazione e crescita del lavoro umano. Insomma, per farla breve,  il ricco che  investe e reinveste, si qualifica  come  un modello positivo capace di favorire la coesione sociale attraverso la riproduzione di reddito e lavoro .
Pertanto, l’avarizia non paga…  Ciò spiega perché il  "ricco-avaro", quale   figura priva di funzione sociale, non abbia mai  goduto di buona fama. Sotto questo aspetto  le esplosioni di violenza sociale, quando non fomentate dalle ideologie pauperiste,  sono il  frutto velenoso  dell’avarizia.  Detto altrimenti:  dell’uso antisociale e antieconomico della ricchezza.
Pertanto il vero punto della questione, non è spedire ricchi e super-ricchi all’inferno, immaginando impossibili società degli eguali, ma far sì che la ricchezza svolga  un ruolo sociale.  Che, insomma,  non si trasformi in avarizia.  E a chi spetta “controllare” che ciò avvenga? Allo Stato? Alle Chiese? Ai Parlamenti? Ai Sindacati?
Non esiste una  ricetta storica e sociologica  precisa.  Anche perché gli studi sulla curva di distribuzione dei redditi (inaugurati da Pareto) mostrano una notevole continuità storica o comunque la lentissima trasformazione ( in primis, nei secoli moderni e in Occidente) della piramide dei redditi in “fiasco” sociale. Ciò significa che il vertice della piramide si è  allungato, trasformandosi nel collo di una bottiglia che ha però visto la propria pancia (il ceto medio) ingrandirsi e il fondo ( i meno abbienti) ridursi. Parliamo però di lievi sommovimenti,  rispetto al  trend  secolare  dei redditi;  increspature delle onde sociali   amplificate, per ragioni ideologiche, dai teorici della società del benessere e minimizzate, per gli stessi motivi,  dai suoi detrattori. Il che spiega, tra l'altro, l' inconcludente dibattito tutto ideologico  sul trionfo finale o sulla imminente caduta del ceto medio.
Cosa vogliamo dire? Due cose. La prima,   che non è possibile incidere radicalmente  sulla struttura sociale della ricchezza; la seconda, che  i ricchi “servono”  perché  forniscono un modello sociale capace di stimolare i più intelligenti e ambiziosi  e al contempo  creare lavoro e benessere diffuso.  E dove, come nella Russia comunista, si è tentato di trasformare la piramide in cilindro che cosa si è ottenuto? Di aprire la strada alla più spietata forma di dittatura statale, che una volta caduta, paradossalmente, ha visto riemergere dalle  torbide e tempestose acque sociali  del mondo post-sovietico l'aguzza  punta della piramide…

Che fare allora? Nulla. Probabilmente è preferibile lasciare che ogni società si confronti  con la ricchezza e l'avarizia secondo la propria cultura. Evitando però di  tirare il collo  alla gallina dalle uova d’oro.

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