venerdì 4 gennaio 2013

Dibattiti
Relativizzare  il relativismo





Il relativismo   prima  che scienza  è   arte  sociologica (in senso nisbetiano)  molto difficile da praticare, perché richiede grande equilibrio e capacità di prendere le distanze da tutti: assolutisti e  relativisti. Ma come  evitare di farsi travolgere dal fiume in piena  delle passioni sociali?   Si pensi  che perfino  Max Weber,  grandissimo pensatore sociale,  si logorò tutta la vita intorno  allo spinoso tema del relativismo ammalandosi  di nervi.  
Intanto, chiunque  desideri scoprire e "verificare empiricamente"  difficoltà,  ambiguità e mitemi  del relativismo  può leggere qui:http://www.leparoleelecose.it/?p=7419#comment-57896  . Dedicando particolare attenzione, più che al mediocre post d’avvio,   al notevole dibattito, dove il nostro Roberto Buffagni,  a spada sguainata, torreggia.  Ma entriamo in argomento.
Che cos’è il relativismo? E’ una visione del mondo che affonda le radici intellettuali  nelle antilogie dei sofisti: due argomentazioni pubbliche, differenti e opposte sullo stesso argomento, per mostrare come la “verità” sia sempre relativa  e  mai  assoluta. 
Che valore sociale può avere una verità relativa? L'esatto  contrario di una verità assoluta. Nel senso che la relatività di una verità, presentata come opinione, dovrebbe indurre a relativizzare la propria e rispettare, comprendendone le ragioni,  chi eventualmente  sostenga  la tesi opposta.  Quindi niente estremismi, niente scomuniche e soprattutto niente violenza.
Abbiamo usato il condizionale (“dovrebbe”). Perché? Se dal valore sociale (il dover essere) passiamo al valore sociologico (l’essere), o se si preferisce al  “come vanno le cose realmente", ci accorgiamo subito che in realtà il relativismo si muove tra i  poli  dell’indifferenza e dell’assolutizzazione delle diverse posizioni  “relative”. E quando avviene il passaggio dall’indifferentismo all’assolutismo (e viceversa)? Quando sono in gioco fattori distributivi e ridistributivi dei diversi poteri sociali (politico, economico, culturale, religioso). Semplificando al massimo: quando sono in discussione dominio, prestigio, ricchezza, ossia valori di status. Ci spieghiamo meglio: a parità di status (o quasi)  i diversi attori sociali, privilegiano l’indifferenza: essere pro o contro qualcosa,  nulla toglie nulla aggiunge; per contro, dove lo status è in discussione, la competizione implica l’assolutizzazione: essere pro o contro può  aggiungere o togliere molto.
Ciò spiega perché anche in società come la nostra, dove il relativismo sembra essere  un valore sociale,  su alcuni temi,  si passi, talvolta repentinamente, dall’indifferenza  all’assolutismo (e viceversa).
Si dirà, perché allora non sopprimere, una volta per tutte,  i conflitti di status? In effetti,  nella Russia comunista tentarono...  Battute a parte,  il problema è che la società, sociologicamente parlando,  implica la competizione e varie tipologie "scalari"  di conflitto,  come del resto le forme opposte della  solidarietà e della cooperazione. Perciò è vero che in linea di principio  gli uomini non vedono di cattivo occhio   la regolazione dei conflitti di status. Ma,  ecco il punto,   la stessa regolazione (chi regola chi?),   implica  nuovi contrasti distributivi,  e così via… Quindi,  a causa delle dinamicità  del "fatto sociale" (in continua discrasia con la "norma sociale"),  anche  l'indifferenza non può non essere relativa e provvisoria.
Concludendo,  il relativismo, almeno sul piano sociologico, va relativizzato.
Carlo Gambescia


Nessun commento:

Posta un commento