giovedì 24 gennaio 2013


La  recensione di Teodoro Klitsche de la Grange  al  buon libro di Agostino  Carrino  evidenzia, e  giustamente, il motivo conduttore del volume:  che il diritto costituzionale non discende dalle innevate vette  del puro pensiero giuridico,  ma  fuoriesce in modo magmatico e incandescente  dalle  profondità  vulcaniche del "politico".   Di qui, il pericolo di bruciarsi.  Osservazione   che sembra  banale...  Ma, come si dice,   non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E  qualsiasi riferimento  al  feticismo  normativo  di  certi   professori e al costituzionalismo giudiziario di alcuni giudici,   non è puramente casuale.  Buona lettura. (C.G.)



Il libro della settimana: Agostino Carrino, La giustizia come conflitto. Crisi della politica e stato dei Giudici, Mimesis, Milano 2011, pp. 284, € 18,00 - (Recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange)  


Se qualcuno pensa che il diritto costituzionale sia quella disciplina giuridica per fratellanze esoteriche e spesso pompose, autoreferenziali e con tendenze ieratiche, questo libro – come altri di Carrino – è una boccata d’aria fresca (e originale). Consta di cinque saggi, scritti dalla fine degli anni ’90 ad oggi: il tema è la crisi dello Stato contemporaneo: la maggiore attenzione è dedicata al ruolo – straripante e stravolgente – del diritto sul politico e del potere giudiziario sugli altri poteri dello Stato.
Scrive Carrino che il diritto e il potere “sono principi regolativi autonomi dell’azione sociale, sfere distinte ma connesse nella storia di tutti i popoli. Un potere senza diritto avrebbe vita breve, ma il diritto che contesta il potere è non solo un’illusione, ma contiene in sé il rischio di danneggiare sia la giustizia sia la pratica politica concreta”; e che “lo Stato di diritto si trasformi in Stato dei giudici (di rischio di una ‘tirannia dei giudici’ in alternativa ad una ‘tirannia delle maggioranze’ si discute nel diritto costituzionale americano praticamente da sempre)”. L’idea che il diritto possa fondarsi su se stesso, così facilmente contraddetta dalla realtà “parte con Kant, raggiunge Kelsen (il quale la costruisce come sistema nella sua ‘dottrina pura del diritto’) e infine i teorici del neocostituzionalismo” ed è suscettibile di gravi conseguenze sulla stabilità, congruità, coerenza dell’ordinamento, indebolendolo sia sul piano delle garanzie di diritti che della protezione della comunità. Scrive l’autore “questa idea di un diritto autoreferenziale è non soltanto indifendibile dal punto di vista dottrinale, ma catastrofica nelle sue conseguenze, perché finisce con il togliere ai politici le loro responsabilità: il politico diventa ‘amministratore’, ‘esecutore’ della volontà del giudice (in senso sistemico), rinuncia cioè alla sua originaria autonomia. In una società di totale, reciproca irresponsabilità, il rischio è che il potere cada nelle mani di forze anonime e oscure, sia a livello interno sia a livello internazionale. Le leggi, in verità, non governano, governano gli uomini e così il diritto è solo e sempre l’espressione di una determinata società politica e dei fini che essa si dà”. Il neo-costituzionalismo, che insieme al “governo dei giudici” è il bersaglio principale di Carrino, sostituisce alle norme i “principi” e/o i “valori”. Ma il valore “è sempre e per sua natura soggettivo”; per cui “Quando si parla di ‘valori’ che stanno sotto i principi costituzionali, ad esempio, si tratta sempre dei ‘valori’ che vengono interpretati e quindi anche qui di valori soggettivi, nella fattispecie dei valori che un consesso di giudizi costituzionali, ad esempio, ritiene essere legittimanti dei ‘principi’ costituzionalizzati. Per questo ciò che si può e si deve ‘prendere sul serio’ non sono i valori in quanto tali, ma il conflitto di valori, conflitto che non ha mai bisogno veramente (solo) di un giudice per essere superato, ma del politico, della forza, dell’autorità”. Per cui alla fine il tutto serve solo a legittimare il potere interpretativo dei giudici. A tutto ciò l’autore contrappone che “questa impostazione, che si pretende intellettualmente superiore e tesa ad una società più ‘giusta’, in realtà finisce con il perdere di vista il fatto che tutti i testi giuridici, compresa la Costituzione, non dipendono da una mera attività interpretativa della loro intrinseca (e presunta) razionalità, ma da un contesto storico-spirituale assai più ampio. La Costituzione è un bene che il popolo si dà e che non può essere affidato in esclusiva a nessun altro” per cui “lo Stato dei giudici è in effetti uno sbocco ineliminabile di ogni ordinamento giuridico che non cerchi in qualche modo di sottrarre la Costituzione alla tutela esclusiva della magistratura, ordinaria e costituzionale. La Costituzione deve essere patrimonio di tutti gli organi dello Stato e in primis dell’ ‘organo’ sovrano, il popolo, ma anche qui non in maniera determinante”.
Al quale spetta, si può aggiungere il potere costituente, che non a caso è del tutto trascurato (et pour cause) da coloro che esaltano la costituzione vigente e il potere interpretativo dei giudici costituzionali (di fatto sconfinante nella revisione apocrifadella Costituzione) la cui massima è “la Costituzione non si cambia, s’interpreta”.
Altri saggi trattano del rapporto tra liberalismo e democrazia, il nichilismo e il diritto, la giustizia e la politica.
I limiti “fisiologici” di questa recensione non consentono di approfondire i vari temi trattati, ma solo il “filo conduttore” principale. E cioè che dalla crisi della Repubblica italiana non si può uscire enfatizzando il ruolo del giudice né quello del diritto versusla politica.
In realtà il diritto non può sostituire la politica, a meno di non mutarsi in quella; così il potere giudiziario non può surrogare agli altri se non cessando di essere “potere giudiziario”, nel senso, ben s’intende, dello Stato borghese di diritto. Per cui illusioni del genere costituiscono il grimaldello per scardinare lo Stato costituzionale nato dalle rivoluzioni borghesi. Il costituzionalismo “classico” è parte della concezione liberale del potere e dello Stato: la quale nasce dal potere costituente, dall’onnipotenza (giuridica) della Nazione, dalla distinzione dei poteri, e, non ultimo, da una tutt’altro che celata diffidenza verso la burocrazia e il potere giudiziario.
Nella situazione italiana contemporanea pensare che sia possibile governare uno Stato ed ora uscire dalla crisi – che è prima di tutto politica e probabilmente epocale – confidando nel potere dei giudici è pensare di avere scoperto la pillola contro il terremoto.
Va da sé che, in definitiva, alle concezioni criticate da Carrino, che sono una specie di pangiuridicismo, possono indirizzarsi critiche analoghe a quelle che Maurice Hauriou rivolgeva a Kelsen. Ovvero che il normativismo (che è una “variante” di pangiuridicismo) del giurista austriaco aveva due limiti fondamentali: da un lato d’aver costruito un sistema statico, poco adatto a comprendere una realtà essenzialmente mutevole e dinamica come l’ordinamento giuridico; dall’altro di aver costruito un sistema più pericoloso per la libertà degli ordini comunitari fondati su convinzioni teologiche e religiose. Perché il dominio dell’ “imperativo categorico” normativista, scriveva il giurista francese, è assai più pericoloso per la libertà di quanto fossero le concezioni teologiche cristiane. E ciò è ancor più vero per certi talebani del costituzionalismo che pretendono di eternizzare la Costituzione del ’47 (e i poteri d’ “interpretarla”): ma ciò a scapito della libertà politica del popolo italiano di darsi una nuova costituzione e un nuovo ordinamento. Cosa che i teologi cristiani – da S. Tommaso a Suarez, da Bellarmino a Mariana, dai gesuiti ai monarcomachi protestanti – hanno sostenuto e legittimato. Ed ancora è insegnato nelle encicliche papali: onde affidarsi a quelli, piuttosto che a certe concezioni, è più propizio alla libertà dei popoli e, spesso, anche degli individui.

Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/  ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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