Georg Simmel, acutissimo sociologo, fu il primo a occuparsi ai tempi della “Belle époque” della condizione di spaesamento del viaggiatore nelle grandi stazioni ferroviarie. Allora al top della prima modernità.
Quel non sapersi subito orientare, pur nella necessità di dover prendere un treno in partenza, in contiguità con altri esseri umani circondati da altri esseri umani alle prese con lo stesso problema, colpì l’attenzione di Simmel al punto di farne una metafora della vita moderna.
Ci si sfiora senza conoscersi in cerca di qualcosa, che gli altri cercano, ma di cui nessuno parla o comunica all’altro. E si prende atto della situazione, puntando sullo scetticismo.
Ecco, per capirsi, la “Società del Covid”, ricorda la stazione simmeliana, con la differenza di un eccesso di comunicazione che complica ancora di più le cose. Se il viaggiatore – o l’uomo metropolitano – di Simmel era solo nella folla ferroviaria, oggi l’individuo, pur essendo meno solo, grazie alla vicinanza, spesso soffocante, delle istituzioni, soffre, proprio per questo, di un eccesso di informazioni.
Il disorientamento o spaesamento dipende dal troppo e non dal troppo poco informativo.
Il che spiega perché il diluvio informativo abbia trasformato lo spaesamento in regola.
Siamo davanti al comportamento tipico di un uomo sottoposto a una sovrabbondanza di stimoli, quindi incapace di reagire a sensazioni nuove, se non con l’indifferenza.
Però l’uomo di Simmel era scettico, diciamo attivo, mentre l’uomo di oggi è scettico ma passivo. Allora si era l’inizio della modernità. Oggi non pochi parlano di fine della modernità
Insomma, ai tempi del Covid, la stazione rischia di trasformarsi in prigione. O quasi.
Carlo Gambescia
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