giovedì 4 luglio 2019

La Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin
"Nella miserabile Bisanzio…"



Da normativo a normativo
Quali lenti inforcare per leggere il libro di Aleksandr Dugin, La Quarta Teoria Politica ?(1) Diciamo innanzitutto che si tratta, almeno a prima vista,  di un’opera di filosofia politica, che quindi  risente di un approccio normativo.  Dugin spiega il mondo come dovrebbe essere, dopo aver illustrato  come è,  sovrapponendo però  agli strumenti delle scienze sociali quelli della teologia cristiana in versione ortodossa.
Non sappiamo se dal punto di vista interno, la versione teologica duginiana sia l' autentica, perché non abbiamo competenze specifiche per giudicare: ci fidiamo di Dugin... Mentre sul versante sociologico,  interverremo.  
Di conseguenza, per tornare in argomento, siamo dinanzi a un volume  dove il descrittivo viene posto al servizio del normativo. Ciò  significa che la ricostruzione normativa (dei fatti) rimanda  alla costruzione normativa (di altri fatti).  Dal normativo al normativo, insomma. Una specie di giroconto valutativo.
Pertanto,  per  prima cosa, il lettore non si aspetti un libro di scienza, perché tale non è. Scienza nel senso di un sapere avalutativo  che ci descrive  i fatti come sono, e dai fatti estrapola regolarità metapolitiche  capaci di fornire  una qualche base previsionale, nel senso  di prevedere non tanto quel che sarà, quanto  quel che non sarà.
Però La Quarta Teoria Politica,  non è neppure un libro di filosofia politica in senso stretto. Perché, non parte dalla condivisione teorica di alcuni principi  endopolitici  come giustizia, libertà, uguaglianza, declinandoli in chiave normativa, valutandone genealogia e finalismo, al di fuori di qualsiasi epifania esopolitica.

Pars pro toto
E allora che cos’è? È un  manuale  teologico e  politico  di denuncia  della modernità, della post-modernità, del liberalismo, della globalizzazione e  dell’economia di mercato  in nome di un ritorno alla Tradizione e alla società gerarchica,  immobile e  senza tempo. Se si vuole, siamo dinanzi a una implementazione costruttivista della Tradizione.  In sintesi,  per Dugin, si potrebbe parlare di tradizionalismo implementista. Un qualcosa  da edificare, in seguito, sul campo, grazie alla riformulazione del tradizionalismo come potente metateoria. 
Di riflesso,  ogni argomento, dai più sofisticati (come ad  esempio dall’uso del Dasein heideggeriano all’evoliana idea di Uomo Differenziato) ai più volgari (come la critica della metafisica della lavatrice e delle discoteche)  è finalizzato  al perseguimento di  un solo  e totalitario scopo, la “distruzione del liberalismo”. 

“Se abbiamo davvero rifiutato il marxismo e il fascismo, quello che rimane è di mettere da parte definitivamente il liberalismo che è un’ideologia altrettanto datata, crudele e misantropa. Il termine ‘liberalismo’ dovrebbe essere equiparato a ‘fascismo’ e ‘comunismo’. Il liberalismo è  responsabile di crimini storici tanto quanto il fascismo (Auschwitz) e il comunismo (i gulag); è responsabile della schiavitù e della distruzione dei nativi americani negli Usa, per Hiroshima e Nagasaki, per le aggressioni in Serbia, Iraq e Afghanistan, per la devastazione e sfruttamento di milioni di persone sul pianeta, e per le menzogne ignobili e ciniche che imbellettano queste verità storica” (2).

Tutti argomenti non molto originali,  sviluppati all’insegna della fallacia della  pars pro toto, per livelli progressivi: liberalismo uguale individualismo, individualismo  uguale modernità,  modernità uguale Stati Uniti. Inutile qui  ribattere,  con caricature delle caricature. O come spesso ama asserire il versante postmoderno di Dugin, con altri simulacri.  Dispiace dirlo  ma, alla fin fine,   siamo davanti a   tesi, accesamente propagandistiche,  da campo d'estate giovanile di qualche nucleo zero sulle montagne dell'Abruzzo.


Lasciamo di nuovo la parola a Dugin:

“Il liberalismo è un male assoluto, non solo nella sua incarnazione pratica e fattuale, ma anche nei suoi presupposti teorici fondamentali. E la sua vittoria, il suo trionfo mondiale, sottolinea e disvela quei caratteri più sinistri che prima erano celati. La ‘libertà da’ è la più disgustosa forma di schiavitù, perché tenta l’uomo e lo spinge a ribellarsi a Dio, ai valori della tradizione, alle fondamenta morali e spirituali della propria gente e della propria cultura. […]. Solo sradicandolo  completamente questo  male potrà essere sconfitto, e non escludo che una simile vittoria possa implicare la rimozione dalla faccia della terra di quell’aura spirituale e fisica da cui ha avuto l’origine l’eresia globale, che insiste sul fatto che ‘l’uomo è misura di tutte le cose’. Solo una crociata globale contro gli Usa, l’Occidente, la globalizzazione e la loro più completa espressione politico-ideologia, il liberalismo, potrà essere una risposta adeguata” (3).

Inutile insistere sull'approccio teologico. Anch'esso non particolarmente originale per chi abbia anche la minima conoscenza della  corposa  letteratura controrivoluzionaria degli ultimi due secoli.   A questo punto, dovrebbe essere chiaro ai lettori che la  Quarta Teoria Politica, Quarta perché implica il superamento delle altre (presunte) tre del Novecento (comunismo, fascismo-nazismo, e liberalismo), non potrà non attingere, oltre che alla Tradizione,

“alle fonti pre-moderne di ispirazione. Qui si collocano lo stato ideale platonico, la società gerarchica  medievale e le visioni teologiche del sistema normativo sociale e politico (cristiana, islamica, buddista, ebraica o indù). Queste fonti pre-moderne sono  uno sviluppo molto importante […].  (4).

Anche perché,

“dobbiamo opporci a ogni genere di conflitto tra le varie credenze religiose – musulmani contro indù, ebrei contro musulmani,  musulmani  contro indù e così via. Le guerre e  le  tensioni interconfessionali  fanno il gioco  del reame dell’Anticristo che mira a separare  le religioni tradizionali allo scopo  di imporre la sua pseudo-religione, la sua parodia escatologica” (5).

Sul concetto di struttura
Non è compito nostro ma  dello storico delle idee indagare sulle fonti tipicamente russe del pensiero di Dugin: dal messianismo  secondo la lezione di Semen Frank, alle correnti slavofile e panslaviste, studiate da Giusti e Walicki.  Senza dimenticare  l' eurasiatismo rivendicato  addirittura  come paradigma cognitivo (per inciso, perché non estendere le stesse prerogative anche all'etruscologia?).  
I punti di contatto - semplifichiamo -  dall'antioccidentalismo all'antimodernismo russo  sono notevoli e per nulla inaspettati.  Soprattutto se inquadrati, come rilevò Ciaadáev, scrittore ottocentesco dal cuore europeo,  nel fatto che, 

“mentre l’edificio della civiltà moderna sorgeva dalla lotta fra la barbarie energica dei popoli del nord e l’alto pensiero della religione, che facevamo noi? Spinti da un destino fatale, andavamo a cercare nella miserabile Bisanzio, oggetto di profondo disprezzo di quei popoli,  il codice morale che doveva  formare la nostra educazione” (6).

Il sociologo però  non può ignorare l’uso disinvolto che fa Dugin  del concetto di struttura.  Perché è vero che il liberalismo -  ammessa e non concessa la sua riduzione teologica  a male assoluto e  unico  ismo (7)  -  come altre  forme di pensiero  è una rappresentazione sociale, dunque  una struttura, che si impone sull’individuo, ma è  falso che per questo motivo  contraddica il pensiero liberale stesso. Perché?
1) Dal momento  che  il liberalismo, a differenza del comunismo e del  nazismo,   è una teoria ex post, e non una  politica del libro ex ante,  resta  difficile, se non impossibile, che sia contraddetto dai fatti qualcosa di non teorizzato prima dei fatti stessi;  2) le strutture, sociologicamente parlando, producono effetti inintenzionali, dei quali però il rasoio di Ockham liberale, tiene conto  puntando sulla  riduzione degli enti politici e sociali. Tradotto: meno strutture, meno effetti inintenzionali.
Sicché nel liberalismo esiste un' eccellente  forma di autodifesa  dagli effetti delle politiche del libro ex ante, del comunismo del  nazismo e del tradizionalismo implementista duginiano, decisamente impregnate di costruttivismo.  Ovviamente,  nessun sistema politico e sociale è perfetto. Ma da qui a teorizzare la dittatura del liberalismo e  la sua  distruzione  in nome di un’isola ex ante,  che non c’è (o grossolanamente identificata pars pro toto con gli Stati Uniti), ne passa.   Per inciso, il fascismo -  come del resto si definiva -  resta religione politica del   libro e moschetto… Ex ante ed ex post al tempo stesso… Una specie di quadratura del cerchio.  Finita molto male.    

Altra notazione, sempre in tema.  La struttura, ad esempio il rito (anche politico), come ripetizione dell'azione finalizzata a  uno scopo dal punto di vista dell'osservato, è  liquidata  da Dugin come una  gabbia ogni volta che si parla di liberalismo e modernità. Per contro, la stessa azione  viene vista  come  fonte di ricchezza culturale quando invece  si analizza la società tradizionale. In proposito si vedano  i capitoli 12 e C  dedicati alla prassi politica. 
Una struttura è una struttura, nel senso che è un fatto relazionale con obblighi sociali reciproci,  esterni ed emulativi,  se si vuole reiterativi, ma sempre a prescindere dai contenuti.  Questa è sociologia, come Dugin,  da buon studioso di Sorokin, dovrebbe ricordare.  Studio delle forme.  
Ora se è vero che gli effetti di ricaduta  sociale della  struttura relazionale,  oltre ad essere  a rischio inintenzionalità,   dipendono anche dai contenuti che vi si immettono, è altrettanto vero che  i contenuti della struttura dal punto di vista storico   possono  essere tradizionali, moderni,  post-moderni.  Quindi la struttura  in sé, in quanto forma,  non è buona né cattiva, né antica né moderna.  Possono  esserlo invece - ripetiamo -   i contenuti.  Ma il giudizio sui contenuti è soggettivo.  Per alcuni - parliamo sempre degli osservati - il rito della  discoteca è superiore a quello della preghiera, per altri invece vale  il contrario. E lo stesso vale per il giudizio sugli effetti sociali, dell'una come dell'altra. Liberalismo è lasciare che si scelga tra discoteca e/o preghiera. Tradizionalismo,  imporre solo la preghiera, vietando le discoteche perché schiave dell'Anticristo.
Altrettanto disinvolto l’uso del concetto di rivoluzione, che Dugin non riporta alla regolarità metapolitica  movimento-istituzione, ma a una specie di monismo conoscitivo che privilegia il movimento rispetto  all ’istituzione, vedendo in quest'ultima  un fattore secondario  quasi privo di rilevanza sociologica. Dal momento che, come egli scrive,  il “ nuovo ordine nato dalla rivoluzione non è fondamentale, è necessario solo per essere sopraffatto” (8). Monismo che invece non è dato  in una sociologia  disciplinata  da regolarità, che si mostrano sempre a  chi osservi, libero dai valori, in chiave wertfrei.  In Dugin invece i  due punti di vista -  dell' osservatore  e degli  osservati -  sono spesso confusi.  Il che non giova  alla correttezza della sua argomentazione.  

Monismo e politeismo conoscitivo
Va però  detto che il monismo conoscitivo, differenzia  la posizione di Aleksandr Dugin da quella dell’altro Dioscuro dell’antiliberalismo, Alain de Benoist,  contraddistinta  invece dal politeismo cognitivo.
In qualche misura, l’approccio di Dugin è più coerente, cognitivamente parlando, di quello debenoistiano. Dugin critica il politeismo cognitivo liberale su salde  basi monistiche: parte da dio e torna a dio, senza fermate intermedie. Diciamo che,  come egli giustamente rivendica, il suo è un olismo integrale.  Mentre  de Benoist,  per criticare il politeismo liberale, è costretto a reinventarsi un liberalismo monoteista, puntando sugli influssi negativi del monoteismo cristiano: una specie di quadratura del cerchio.

Sicché il pensatore francese parte dagli dei e torna agli dei, ma dopo un giro vizioso per ragioni  di igiene cognitiva. Diciamo perciò  che il suo è un olismo dimezzato. (9). Dugin è un costruttivista puro, de Benoist a metà. Il primo  crede, anche se non lo ammette esplicitamente, nella  possibilità di costruire e ricostruire, una volta in grazia di dio,  la società a tavolino,  il secondo, resta dubbioso,  temendo forse l'effetto Torre di Babele (grazia  o  no di dio...). Forse tra i due - è solo un'ipotesi -  il vero  credente potrebbe essere Alain de Benoist.  
Non giova infine al volume  la struttura saggistica (della raccolta di scritti),  o comunque l’inserimento di appendici, addirittura, nove ( A-I).  Perché  il denso  discorso  duginiano  tende a  diventare  ripetitivo perdendo vigore (come  nei doppi capitoli e appendici  su liberalismo  e genere).  D'altra parte, i vari saggi sembrano  risentire dei diversi pubblici e sedi:  alcuni sono  molto sofisticati  (come quelli sul Dasein, sui processi monotoni, sulla reversibilità del tempo, sull’ontologia del futuro), altri invece meno ( come quelli sulla sinistra e le sue trasformazioni, sul  progetto grande Europa e  sulla guerra alla Russia).  Sono cose che in sede di editing  andrebbero  tenute in considerazione. Dal momento che l’effetto finale, pensiamo  al lettore  non addetto ai lavori, può essere disorientante. Anche un indice dei nomi e delle cose notevoli avrebbe aiutato.  

Una specie di anti-Ockham
Quanto all’introduzione di Luca Siniscalco, sicuramente un pezzo di bravura.  Parliamo di un approccio all’opera duginiana in termini di alchemica politica, che scorge addirittura nella  ricerca duginiana un processo di svelamento  della  una nuova  pietra politico-filosofale.  Dicevamo pezzo di bravura,  ma nel senso  retrò  di una fiaba teatrale di Carlo Gozzi rispetto a una sferzante commedia  di Carlo Goldoni.  Può piacere agli aristocratici,  non ai borghesi...
Certo,  se questa destra possedesse un minimo di autoironia forse sarebbe più facile capirsi e dialogare.  Del resto difficile trovarla  anche  in  Dugin.  Una specie di anti-Ockham, teso a moltiplicare concetti  alla stregua di  preghiere come uno stilita delle idee. Ferma però restando la sua contemplazione del dio unico.
Approccio che  a dire il vero non aiuta:   con  la Città degli Angeli,  il  Dasein, l'Anticristo, il Soggetto radicale, l'Androgino,  Dugin assembla  parole su parole, concetti su concetti, teoremi su  teoremi. Fino a quando, per dirla prosaicamente,  al lettore stremato,  anche  il   più duro attacco al liberalismo e modernità appare, per l'improvvisa chiarezza  da reductio ad unum,  come la classica  ancora di salvezza. E vi si aggrappa.
Dopo di che,  come  l' avventore stordito dalle parole del commerciante esuberante, esce dal negozio soddisfatto.  Salvo dopo  pochi metri accorgersi di essere stato fregato.                 

Carlo Gambescia                                          


(1) Aleksandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, NovaEuropa, Milano 2018, 2° edizione, pp. LVIII- 398.    
(2) Ibid., p. 81.
(3)  Ibid., p. 218.
(4) Ibid., p. 291.
(5) Ibid., p. 292.
(6)  P.J. Ciaadáev, Lettere filosofiche seguite dall’Apologia di un pazzo e da una lettera a Schelling, a cura di Angelo Tamborra, Laterza, Bari, 1950, p. 97.
(7)  All’esistenza di almeno quattro forme di liberalismo “sociologico” (archico, macro-archico, micro-archico, an-archico) abbiamo dedicato uno studio: Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin, Il Foglio, Piombino (LI) 2012.
(8) Aleksandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, cit.,  p. 276.
(9)  Sul punto si veda la nostra recensione al volume di Alain de Benoist, Contre le Libéralisme:  https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2019/03/il-nuovo-libro-di-alain-de-benoist-il.html  .