domenica 14 ottobre 2018

 L’intervista di Alain de Benoist a “Die Welt”
Un pensatore paradossale…




“Die Welt”  ha  pubblicato, due giorni fa,  la  lunga intervista ad  Alain de Benoist  di Martina Meister (*). Il pensatore francese, settantacinque anni il prossimo dicembre,  viene dipinto come una specie di Céline, nella sua vecchia casa di campagna,  quasi in rovina, in una grande  cucina,  ingombra di libri e cianfrusaglie,   tra i gatti, seduto su  una vecchia sedia con una gamba più corta,  con la variante, che però non  fa molto "maledetto",  della sigaretta elettronica, che meccanicamente va e viene tra le sue labbra.   
Il giornalismo tipo Sky  non comprenderà mai, perché incapace di analizzare a fondo,  un personaggio del calibro di Alain  de Benoist.  Che per capirsi, non è un  Fusaro qualsiasi.  Molti anni fa, il padre della Nuova Destra europea ( ma si potrebbe dire mondiale), durante un tour culturale in Germania, venne picchiato da alcuni estremisti di sinistra.  Allora però “Die Welt” non mandò nessuno a intervistarlo. I tempi cambiano, i populisti vincono, anche sul Reno,  dichiarandosi  figli spirituali di  Alain de  Benoist.  Allora,  non si sa mai… 
A dire il vero, nell’intervista, il pensatore francese, nega di  essere il paparino di chicchessia, a cominciare dai sovranisti. Civetteria intellettuale? Astuzie della ragione? Politicamente corretto  di segno contrario? Oppure semplice verità?
Sul piano dell’influenza cartacea,  Alain de Benoist  è stato letto (parola grossa) soprattutto dall’estrema destra.  Ma lo ha letto, su quello più verace della influenza delle idee,  per poi abbandonarlo al suo destino,  anche  la  sinistra:  la sinistra intellettuale, quella elitaria che civettava e civetta, soprattutto in Italia.  con il pensiero della crisi europea, in particolare quello di Carl Schmitt, il pensatore elettivo di Alain de Benoist  insieme  a   Heidegger e Marx.
Rispetto  a questa infuocata  triade,  Gramsci,  ricordato  anche nell'intervista,  fu solo un breve incontro, più che altro per  épater le bourgeois. Il concetto di  “egemonia culturale” viene tradotto da Alain de Benoist  in termini di conquista degli intellettuali  di segno opposto ( se si vuole di convergenze...), non - attenzione -  del popolo in quando tale:  in chiave  “nazionalpopolare”, come invece teorizzava il  pensatore comunista.
Il paradosso  Alain de Benoist -  dal titolo di un libro che Preve scrisse su mio invito (**) -   non è tanto ( o comunque non solo) nella natura trasversale  del  suo  pensiero, quanto in una  raffinatezza epistemologica  che è quanto di più lontano dal greve e incolto  populismo politico di destra e sinistra. 
Il paradosso  - che in fondo fu pure di Georges Sorel, che per tanti aspetti gli somiglia  -  è quello di un dottissimo  intellettuale,  benché non lo dica mai  apertamente, che  vuole parlare in nome del popolo e  soprattutto vuole insegnare al popolo, anche qui non scopertamente,  cosa sia il bene, cosa sia male, cosa sia peccato, cosa  sia  grazia  e perdono. C'è un fondo religioso, probabilmente cristiano,  nel pensiero debenositiano, che andrebbe indagato,  andando oltre il pane stantio del  paganesimo di facciata.
Qual è il punto, insomma?  Al di là di una casa di  campagna, che cada o meno  a pezzi, cosa che qui non interessa,  Alain de Benoist, come forma mentis,  è elitario quanto Macron, il suo nemico giurato. Con una differenza, che Macron è un politico, de Benoist un intellettuale. Dunque con responsabilità diverse. Per dirla con Pareto,  Macron appartiene alla classe eletta di governo, de Benoist a quella eletta di non governo.   Altro che popolo  contro  élite…
La debenoistiana  raffinatezza di pensiero  preclude, a priori,  qualsiasi basso  commercio intellettuale (e a maggior ragione politico), con autodidatti delle idee riusciti male  come Marine Le Pen e Matteo Salvini. Pertanto, Alain de Benoist dice il vero quando nell’intervista  dichiara  di non  ritenerli  eredi poltici né tantomeno figli spirituali.
Crediamo però  che questo suo costruttivismo -  la pretesa intellettualistica di sostenere  che le idee vengano prima dei fatti e non viceversa -  spieghi sul piano cognitivo l' avversione  per il liberalismo. Nell’intervista c’è una frase chiave: “Se non ci fosse un solo migrante in Europa", dice de Benoist, “la nostra identità sarebbe ugualmente minacciata". Dal capitalismo liberale, of course.
Il mercato, e più in generale  l’idea di una mano invisibile che  regoli l'imprevedibilità  delle azioni sociali, teorizzato dal liberalismo,  in particolare economico,  sono  quanto di più estraneo al costruttivismo intellettuale debenoistiano.  In realtà, il liberalismo è anche realismo politico e regolazione del mercato, dunque mano visibile. Una componente costruttivista -  cosa negata neppure da Hayek e perfino da Mises -  che  fa parte, cognitivamente  parlando, di ogni  pratica politica. Il punto è dove fermarsi.
De Benoist, per usare una metafora banale, getta il bambino del liberalismo con l’acqua sporca della mano invisibile.  Al di là del primato del politico o meno,  in gioco resta  la questione cognitiva della prevedibilità o meno delle azione umane.  Ovviamente, di questo in una intervista giornalistica a Sky, pardon al  “Die Welt”,  non si può parlare.  Dei gatti, che fanno tanto Céline, magari sì. 

Carlo Gambescia                 
                                      
     

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