Rapporto Istat
Poveri dentro
Da giorni sono note le cifre del “Rapporto
annuale sulla situazione del Paese nel 2010” ( http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/ ).
L’aspetto più rilevante, variamente commentato da tutti (Governo, Sindacati,
Confindustria, Cei), è che un quarto della popolazione rischia la povertà e/o
l’ esclusione ( il 24,7 per cento). Siamo davanti a un valore ben al di sopra
della media europea ( il 23,1 per cento). Una condizione, per metterla in
cifre, che interessa 15 milioni di persone ( in Europa, 114 milioni).
Naturalmente, ci sono vari modi di percepire il rischio povertà. Gli indicatori
individuati dall’Istat per monitorare tale obiettivo sono tre: le persone a
rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali; le persone in situazione di
grave deprivazione materiale; le persone che vivono in famiglie a intensità
lavorativa molto bassa.
Resta però una questione fondamentale, che spesso sfugge allo statistico: il
ruolo negativo, per dirla con Oscar Lewis, della cultura della povertà,
Si tratta di un forma, se ci si passa il parolone, di secessione o fuga
socioculturale: il povero, o aspirante tale (si fa per dire), accetta di
comportarsi da povero, interiorizzando culturalmente la condizione di
esclusione sociale: alcuni la imputeranno alla società, altri alla propria
incapacità, altri ancora a un destino individuale avverso, ma per tutti la
povertà sarà, come dire, la tambureggiante colonna sonora dell'esistenza. Detto
il modo diverso: il culturalmente povero (il "povero dentro"…) non
riesce a sviluppare relazioni sociali e culturali adeguate a una positiva
integrazione sociale, se non all’interno della sua stessa cerchia. E spesso, il
culturalmente povero giudica inutile qualsiasi tentativo di ascendere
socialmente per sé e per la sua cerchia familiare e sociale. Ora, è veramente
ingenuo pensare di rispondere al fatalismo culturale con il solo aumento dei
trasferimenti sociali individuali. E per una semplice ragione: la povertà "di
dentro", va combattuta nei “cervelli”, puntando sulla progressiva
scomparsa, o comunque riduzione, della mentalità che contribuisce a
perpetuarla. Ma come? Ad esempio, la presenza di periferie-ghetto non giova
assolutamente alla mobilità sociale e professionale, e quindi allo sviluppo di
aspettative positive di inserimento sociale. Ancora: una società bloccata, come
l’italiana (forse per alcuni sarà una scoperta…), dove il 60 per cento dei
figli svolge la professione paterna, o comunque rimane all’interno dello stesso
segmento sociale, soprattutto se di condizione inferiore, non favorisce lo
sviluppo di credenze positive sulla forza della mobilità sociale. Infine, la
pessima qualità della scuola e dell’università, di certo, non aiuta...
Purtroppo, la politica italiana sembra aver rinunciato a contrastare la
diffusione e il consolidamento, prima che della povertà economica, di una
cultura della povertà.
Possibile che non si voglia capire che il male dal combattere non è solo
economico? O che comunque, economia e cultura dipendono l’una dall’altra?
Carlo Gambescia
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