"Calcioscommesse"
Corsi e ricorsi
Ci risiamo. I campionati di Serie A e B sono appena finiti e le manette tornano
a tintinnare. Nel giro di poche settimane, come si legge sui giornali, alcune
squadre « rischiano di passare dalle stelle alla polvere. Dallo champagne allo
spettro della retrocessione». Si riparla, insomma, di scommesse su eventi
sportivi manipolati. E già circolano i nomi di quadre della Massima Divisione,
probabilmente coinvolte nelle compravendita di partite.
Che dire? Forse è giunto il momento (l’ennesimo) di fare qualche riflessione su
quel che è diventato il gioco del calcio, ormai gestito come una pura e
semplice macchina per fare quattrini, anche in modo illecito. Di solito si
ritiene che lo sport riverberi pregi e difetti sociali. Se un secolo fa, affari
e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate, oggi invece
procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta risale agli anni Ottanta-Novanta
del secolo scorso, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse
molte società calcistiche a volare alto, trasformandosi in società per azioni,
gestite da manager (apparentemente) di successo. Di lì provengono le lucrose
sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il
titolo in Borsa. Ma anche il culto orgiastico del dio-denaro, i «magheggi»
arbitrali e il giro delle scommesse illecite, come del resto mostrano,
rispettivamente, i casi Moggi e Signori.
E i tifosi come hanno reagito? Innanzitutto,
va ricordato un dato sociologico «duro» ( nel senso di stabile), che emerge da
sondaggi, indagini e libri (uno per tutti quello di Beha e Di Caro): l’80 per
cento di coloro che seguono il calcio ritiene il campionato poco credibile,
perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 per
cento, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante
ciò, il 50 per cento continua a dichiararsi tifoso accanito di una squadra. Facciamo
il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi sul quale l’apparato
economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non
significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel
sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a soffrire-gioire per la
propria squadra, almeno uno non nutre alcuna stima verso il mondo del calcio.
Il che vuol dire che quel tifoso sarà incline a ritenere vera la tesi
ricorrente del complotto occulto contro squadra amata? Sì, ma fino a un cenrto
punto. Perché anche il tifoso complottista finisce per applicare il criterio
della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o
comunque legati alle cosiddette stagioni d’oro. Ad esempio Cragnotti, rimasto
invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi
laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia, il
conducator dello scudetto laziale 1974. Discorso che può valere anche per altre
società calcistiche.
Di regola, anche il tifoso complottista
difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo
scudetto alla squadra del cuore. Il tifoso applica, come abbiamo anticipato,
una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che ruba e
basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre
l’imprenditore che ruba, ma porta la squadra per cui si tifa in Champion League
viene difeso a spada tratta. Lo stesso discorso vale per il campione che
scommette. Per chi lo «tifa» è una specie di «compagno che sbaglia». Che può
quindi essere perdonato. Sempre che non abbia scommesso («Orrore!») contro i
propri colori… Probabilmente, il criterio delle doppia verità, pur riguardando
una minoranza (ma non va sottovalutato il fenomeno della mimesi
comportamentale, soprattutto nelle fasi di crisi), riflette certe
caratteristiche della società italiana. In fondo, per allargare il discorso, ai
tempi di Tangentopoli, alcuni attivisti ed elettori, applicando lo stesso
criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse
rubato, non per se stesso ma per il partito. Probabilmente siamo davanti a una
forma di «comunitarismo amorale»: un fenomeno sociologico che vede l’individuo
identificarsi nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile e,
naturalmente, la squadra del cuore… Concludendo, Moggi, Signori & Co. per i
tifosi sono colpevoli? Dipende.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento