lunedì 13 giugno 2011

"Calcioscommesse"
Corsi e ricorsi



Ci risiamo. I campionati di Serie A e B sono appena finiti e le manette tornano a tintinnare. Nel giro di poche settimane, come si legge sui giornali, alcune squadre « rischiano di passare dalle stelle alla polvere. Dallo champagne allo spettro della retrocessione». Si riparla, insomma, di scommesse su eventi sportivi manipolati. E già circolano i nomi di quadre della Massima Divisione, probabilmente coinvolte nelle compravendita di partite.
Che dire? Forse è giunto il momento (l’ennesimo) di fare qualche riflessione su quel che è diventato il gioco del calcio, ormai gestito come una pura e semplice macchina per fare quattrini, anche in modo illecito. Di solito si ritiene che lo sport riverberi pregi e difetti sociali. Se un secolo fa, affari e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate, oggi invece procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta risale agli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse molte società calcistiche a volare alto, trasformandosi in società per azioni, gestite da manager (apparentemente) di successo. Di lì provengono le lucrose sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il titolo in Borsa. Ma anche il culto orgiastico del dio-denaro, i «magheggi» arbitrali e il giro delle scommesse illecite, come del resto mostrano, rispettivamente, i casi Moggi e Signori.


E i tifosi come hanno reagito? Innanzitutto, va ricordato un dato sociologico «duro» ( nel senso di stabile), che emerge da sondaggi, indagini e libri (uno per tutti quello di Beha e Di Caro): l’80 per cento di coloro che seguono il calcio ritiene il campionato poco credibile, perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 per cento, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante ciò, il 50 per cento continua a dichiararsi tifoso accanito di una squadra. Facciamo il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi sul quale l’apparato economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a soffrire-gioire per la propria squadra, almeno uno non nutre alcuna stima verso il mondo del calcio. Il che vuol dire che quel tifoso sarà incline a ritenere vera la tesi ricorrente del complotto occulto contro squadra amata? Sì, ma fino a un cenrto punto. Perché anche il tifoso complottista finisce per applicare il criterio della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o comunque legati alle cosiddette stagioni d’oro. Ad esempio Cragnotti, rimasto invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia, il conducator dello scudetto laziale 1974. Discorso che può valere anche per altre società calcistiche.


Di regola, anche il tifoso complottista difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo scudetto alla squadra del cuore. Il tifoso applica, come abbiamo anticipato, una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che ruba e basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre l’imprenditore che ruba, ma porta la squadra per cui si tifa in Champion League viene difeso a spada tratta. Lo stesso discorso vale per il campione che scommette. Per chi lo «tifa» è una specie di «compagno che sbaglia». Che può quindi essere perdonato. Sempre che non abbia scommesso («Orrore!») contro i propri colori… Probabilmente, il criterio delle doppia verità, pur riguardando una minoranza (ma non va sottovalutato il fenomeno della mimesi comportamentale, soprattutto nelle fasi di crisi), riflette certe caratteristiche della società italiana. In fondo, per allargare il discorso, ai tempi di Tangentopoli, alcuni attivisti ed elettori, applicando lo stesso criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse rubato, non per se stesso ma per il partito. Probabilmente siamo davanti a una forma di «comunitarismo amorale»: un fenomeno sociologico che vede l’individuo identificarsi nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile e, naturalmente, la squadra del cuore… Concludendo, Moggi, Signori & Co. per i tifosi sono colpevoli? Dipende. 

Carlo Gambescia

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