Il libro della settimana: Emanuele
Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli 2011, pp.
166, Euro 18,50.
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Come accostarsi all’autobiografia di
Emanuele Severino? Rivestendosi« condecentemente di panni reali e curiali», come
il Machiavelli a ideale colloquio con gli «antiqui huomini»? Oppure andando in
cerca, come in un improvvisato reality
filosofico, dell’aneddoto, della curiosità, del momento di abbandono dietro le
quinte della stringente teoresi?
Severino proprio «antiquo» non è, ma la levatura del filosofo è altissima, allo
stesso livello dei nostri Maggiori. Quindi la risposta è scontata:
«condecentemente» vestiti. Perciò il lettore si allacci le cinture. Anche
perché dietro ogni riga dell’autobiografia, per usare un termine caro
all’autore, si scorge un destino incontrovertibile: quello di un giovane di
buona famiglia, destinato a diventare filosofo, all’interno di mondo affettivo
( genitori, fratello, moglie, figli, colleghi e amici, allievi) che in qualche
misura (grande o piccola) partecipa di un destino unico, segnato da quegli
eterni, che danno il titolo al volume. Poiché, scrive il filosofo, «in ogni
uomo il suo ricordare è il suo ricordo eterno degli eterni - dove eterni sono,
appunto, sia le cose ricordate, sia il ricordante» (p.137).
Del resto, secondo Severino, « “l’uomo” si illude di capire e perfino di
approvare la verità, e addirittura di capire e farsi sostenitore del destino
della verità ». Situazione che riguarda anche i filosofi: «In questa illusione
mi trovavo e tuttora mi trovo (e vi si trova qualsiasi altrui esser “uomo” che
creda di capire e di approvare il Contenuto del destino). Non è l’ “uomo” a
capire il destino, ma è il destino stesso a capirsi e ad apparire nel proprio
sguardo - e questo apparire siamo Noi nel nostro essere originariamente oltre
l’ uomo » (p.100) .
Ma che cos’è il destino? La citazione è lunga ma necessaria: «La parola
de-stino indica (…) lo stare: lo stare assolutamente incondizionato. Il destino
è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso abbattuto,
ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo stesso apparire
appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile. Al di là di ciò che crede di
essere, l’uomo è l’apparire del destino. Al centro di ciò che non può essere in
alcun modo negato sta l’impossibilità che un qualsiasi essente (cose, eventi,
stati della coscienza o della natura o di altro ancora) sia stato un nulla e
torni ad esserlo. Questa impossibilità è la necessità che ogni essente - dal
più umbratile e irrilevante al più grande e profondo - sia eterno. Al centro di
questo centro sta l’apparire del senso autentico della impossibilità e della
necessità. Nella sua essenza, ogni uomo è l’eterno apparire del destino; e nel
cerchio del destino, in cui l’essenza dell’uomo consiste, va via apparendo ciò
che sopra abbiamo chiamato manifestazione del mondo, cioè il grande sogno che
include anche questo esser uomo che sono io e cha sta scrivendo intorno ai
propri ricordi » ((pp.46-47).
Ovviamente, Severino parla anche di sé e della persone care. Ma sempre con
l’occhio del grande filosofo «antiquo» capace di ricondurre ogni cosa dal
particolare all’universale, e viceversa. Come a proposito dell’amatissima
moglie Esterina, scomparsa alcuni anni fa: «Ho assistito a tutti e due i parti
di mia moglie, entrambi in casa (…). In questo momento sto scrivendo nel mio
studio. Alla mia sinistra, contro il muro, c’è una libreria che apparteneva ai
miei genitori (…). Nell’imminenza del parto, dove ora si trova la libreria era
stato disposto un lettino e lì Esterina diede alla luce Federico. Io ero
pressappoco qui o accanto al lettino e la levatrice mi teneva su di morale. Ora
mi guardo attorno e vedo il mio studio: giro la testa vedo la libreria. Ma
Esterina su quel lettino e quella mattinata della Domenica delle Palme e il
primo vagito di Federico non sono un passato a cui debba guardare con la
tristezza che si prova per le cose perdute per sempre. Quella mattinata è lì
tutta intera, eterna, appena dietro l’angolo dell’oblio, e, come ogni altra
cosa passata, attende l’inevitabile, ovvero che giunga il tempo opportuno per
rigirare l’angolo e tutta intera rifarsi innanzi, in Me, insieme a tutte le
cose passate. In me, invece, in me come “uomo” e dunque come uno che ha ed è
fede e che erra, qualsiasi cosa egli abbia a sentire o pensare, in me che ora
sto girando la testa verso il muro e non vedo quella mattinata, sopraggiunge la
tristezza del tempo perduto. Ma il mio esser oltre l’essere uomo, il mio esser
Io del destino, vede che anche questa tristezza è un errare e che, quando il
passato rigirerà l’angolo, essa avrà compimento. Non sarà annientamento, ma
sarà il fondovalle che, non più coperto dalle nubi, si mostra ai piedi della
corona dei monti. Poi tornerà la stanza di quella Domenica delle Palme, col
lettino, e la stanza di quest’ora che mi ha visto girare la testa, trovando la
libreria» (pp. 85-86).
Difficile trovare di questi tempi pagina più densa e profonda, ma al tempo
stesso illuminante. Perché capace di riassumere un pensiero dove la vita si fa
filosofia, la filosofia destino, e il destino verità.
Carlo Gambescia
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