Si fa presto a dire felicità…
Se per un uomo,
come mostrano alcuni millenni di letteratura morale, è così
difficile sentirsi e dirsi felice, come è possibile scoprire quando,
quanto e come sia felice un intero popolo? Un mega-aggregato di
uomini, talvolta indecisi a tutto… O addirittura stabilire
“graduatorie della felicità” tra popoli dalle tradizioni
differenti?
Certo, le tecniche
d’indagine sociologica hanno fatto passi enormi. Come del resto le
conoscenze statistiche. Per non parlare della scontata espansione delle
burocrazie pubbliche, autentiche cavallette divoratrici di informazioni
sulla cittadinanza: dal reddito dei nonni alle malattie dei nipotini. Ora,
questi “fabbricatori” della felicità (altrui) ci dicono, ad
esempio, che i Colombiani sono più felici degli Italiani ( http://www.comequando.it/i-paesi-piu-felici-del-mondo/ ).
Perfetto. Ne siamo contenti per i primi e dispiaciuti
per i secondi. Ma le cose stanno proprio così? Che cos’è la
felicità per gli uni e per gli altri? Un pasto ricco e vario tutti i
giorni? (spesso impresa non facile quando manchino lavoro e
reddito sicuro). O l’ acquisto di un costoso telefonino
ultimo tipo? (come accade dove invece abbondano possibilità professionali
e reddito certo).
Forse, innanzitutto,
si dovrebbe stabilire che cosa sia la felicità? Qui però
ritorniamo al punto di partenza… Nel Settecento le carte di
indipendenza e delle libertà costituzionali votate da
parlamenti in parrucca sancirono il diritto alla felicità, o
quantomeno il diritto alla ricerca della felicità. Nell’Ottocento il
popolo scapigliato salì sulle barricate provando a conquistarlo.
Nel Novecento felicità fece prima rima con le uniformi
militari e di partito (unico), poi con la pensione, le
ferie pagate, l’ assistenza medica gratuita e il consumismo.
Ma non ovunque.
Infine, nel nuovo secolo
sembra che il diritto alla felicità sia diventato un dovere: il dovere di
essere felici… Di qui, dando per scontato che l’uomo non cerchi
altro, dotte inchieste e conseguente “fabbricazione” di
indici e graduatorie. Che tristezza…
Carlo Gambescia
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