Grazie Teodoro! Perché dovremmo tirarti per la giacchetta,
come scrivi nella chiusa del tuo post? Anzi,
ringraziamo pubblicamente l’amico Teodoro Klitsche de la Grange (*) per il
magistrale articolo. Perché ci spiega come in
Italia, rendendo costoso e lento l’apparato giudiziario, si sia in realtà
costruita una giustizia di classe. E per giunta senza che se
ne accorgesse, come si legge, « chi classe ed eguaglianza le ha
sempre in bocca »... Detto altrimenti: gli
apprendisti stregoni della sinistra, da sempre pronti a invocare le due parole
magiche. Buona lettura. (C.G.)
Giustizia di classe
di Teodoro Klitsche de la Grange
A leggere quasi tutti i libri di giuristi che parlino ad un
tempo di Stato e di diritto, si può notare che, secondo gli autori, funzione
essenziale dello Stato sia di fare osservare il diritto, e per questo di
istituire Tribunali. Si va dal “ne cives ad arma ruant” dei romani alla Diké di
Hauriou: dare, organizzare, obbligare a servirsi della giustizia è una
necessità ineludibile per evitare che i cittadini (o i sudditi) se la facciano
da soli, in un bricolage giudiziario che va dalla faida al duello (e così via).
A conferma di ciò citiamo quel che ne pensava un mostro sacro del diritto
pubblico (e della politica) come Vittorio Emanuele Orlando “Abbiamo stabilito
come fine essenziale dello Stato l’attuazione, in senso larghissimo, del
Diritto nella convivenza sociale... quella coazione esterna, senza cui non
esiste alcuna norma giuridica, non può esistere che in seno allo Stato”.
Si può osservare che i giuristi in genere enfatizzano questa
funzione: accanto e sopra la quale c’è quella, essenzialmente politica (e non
giuridica) della protezione della comunità (in – e con – la pace o la guerra),
di cui quella “giuridica” è una conseguenza, variamente (anche se
costantemente) disciplinata.
Questo fino a qualche lustro fa: onde la poco efficiente giustizia
italiana, anche se tale, costava poco (e spesso niente), proprio perché
l’accesso alla giustizia “funzione essenziale e necessaria” non poteva essere
limitato da oneri pesanti.
Da allora qualcuno al Ministero della Giustizia fece una
bella pensata: e se per risolvere il problema (principale) della giustizia
(civile e amministrativa) e cioè l’eccessivo numero di cause rispetto alle
decisioni delle medesime, non aumentassimo queste ultime, ma riducessimo le
prime? E quale miglior sistema (a parte conciliazioni, mediazioni, arbitrati,
perenzioni) che creare una giustizia sempre più costosa, di guisa da
scoraggiare le liti, specie dei meno abbienti (alla faccia del principio
d’eguaglianza)?
Detto, fatto: fu inventato il “contributo unificato” un
meccanismo che, a seconda del “valore” e del tipo della lite e dell’ufficio
giudiziario, dev’essere pagato dal litigante che inizia il processo.
La pensata ha avuto un crescente successo: da qualche
anno è tutto un aumentare il contributo unificato (e gli obbligati a questa
tassa): quanto ai contribuenti (anche i litiganti che provino a proporre una
domanda in proprio in causa iniziata da altri) alla quantità delle doglianze
(l’estensione ai “motivi aggiunti”) all’abolizione di “fasce” esenti (il
processo del lavoro), al tipo di processi. Ad esempio per far iscrivere un
ricorso in materia di gare pubbliche, Pantalone esige ben 4.000,00 euro
sull’unghia. E l’ultimo aumento (del 50%) è di quest’inverno (il precedente
dell’anno scorso).
Il tutto poi, mentre aumentano esponenzialmente le somme che
Pantalone paga per la durata eccessiva dei processi; malgrado anche qui,
qualche solerte pensatore abbia pensato prudentemente di rallentare al massimo
il pagamento degli indennizzi, rendendo impignorabili quasi tutte le entrate
del Ministero della Giustizia, cioè il maggior debitore di tali somme. E così
tra quattrini incassati immediatamente e risarcimenti pagati alle calende
greche, la macchina ansimante della giustizia procede rendendo servizi sempre
meno appetibili a costi obbligatoriamente crescenti (per gli
utenti-contribuenti).
Questo pone un paio di riflessioni di carattere generale.
La prima: oltre un secolo fa i giuristi tedeschi
paragonavano il loro sistema giudiziario con quello inglese, notando che il
primo era facilmente accessibile a tutti ed efficiente, mentre quello inglese
costoso e lento. Il che la rendeva una “giustizia di classe” a disposizione
solo di ricchi e potenti. È curioso che durante e dopo tutto questo tassare
nessuno (specie chi classe ed eguaglianza le ha sempre in bocca) si sia accorto
che si stava (e sta) costruendo anche in Italia una “giustizia di classe” ad
accesso differenziato: agevole per chi ha i soldi e può aspettare e molto meno
per chi ne ha pochi ed ha fretta.
La seconda: imperversa lo strabismo economico, non tanto
quello della public choice o alla Puviani o alla Pareto, cioè del calcolo
economico dei costi della politica e della burocrazia, ma un altro, più terra
terra, che vorrebbe misurare secondo parametri economici tutti i servizi,
indipendentemente dal loro carattere e funzione. Mi spiego: se lo Stato decide
di fare una caserma dei carabinieri, è del tutto corretto che il costo
dell’edificio sia valutato in base al costo in genere delle costruzioni; ma se
si pretende di misurare il “rendimento” della caserma, il calcolo diventa di
fatto estremamente difficile, altamente opinabile, e al limite impossibile.
Perché se si vuole valutarlo in base al numero delle pratiche “sbrigate” (cioè
di indagini su denunzie, querele, rapporti, referti), il parametro è, a dir
poco, parziale. Questo perché l’effetto della presenza della caserma è, di
solito, di fare ridurre i reati (e le conseguenti denunzie), per
l’intensificarsi della prevenzione e il timore di una repressione più pronta ed
efficace. Tutt’al contrario di un criterio “a pezzi lavorati” è la riduzione di
questi che può essere l’indice più realistico del risultato ottenuto. Cioè la
tutela del bene-sicurezza.
E si può sostenere, al contrario di quanto molti pensino,
che la riduzione del ricorso alla giustizia potrebbe derivare non da certi
espedienti da Arpagone, ma dal miglioramento dell’efficienza e
dell’accessibilità della stessa: perché una decisione, pronta ed equa, su un
diritto è il maggior deterrente per chi ha torto.
E si potrebbe andare avanti ancora, ma il direttore già mi
tira per la giacchetta, e rimando i lettori, per altre riflessioni, ad un
prossimo articolo.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura
politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/
). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi
(1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno
dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
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