Oggi lasciamo la parola a Saro Freni (*). Sarà
lui ad occuparsi, e molto bene, del libro della settimana. Diciamo subito
che si tratta del “ripescaggio” di un notevole saggio,
che risale al 2004, scritto dal sociologo francese Raymond Boudon.
Piccola chiosa sociologica: gli anni Sessanta, periodo in
cui la sociologia, come spiega Boudon, cede il passo alle mode ideologiche e
alla faciloneria metodologica, sono gli stessi anni, purtroppo, in cui la
sociologia conquista le facoltà universitarie italiane: viene “istituzionalizzata”,
per dirla tecnicamente, producendo, anche da noi, «risultati
indigesti e insalubri»… Colpa della sociologia? No. Ma di certi sociologi, per
citare ancora Freni (e Boudon), «indifferenti alla realtà fattuale ed empirica,
e ipersensibili alle sirene dei rivoluzionarismi e delle avanguardie».
Naturalmente, anche lo scientismo sociologico va guardato con sospetto.
Si veda in argomento il classico libro di Pitirim A. Sorokin, Fads and
Foibles in Modern Sociology and Related Sciences (1956).
Insomma, ogni buon sociologo, soprattutto se liberale, deve cercare
sempre di collocarsi “metodologicamente” al centro, evitando le opzioni
estreme: scientismo e rivoluzionarismo. Buona lettura. (C.G.)
Il libro della settimana: Raymond Boudon, Perché gli
intellettuali non amano il liberalismo, Rubbettino, pp. 136, euro 14,00.
Raymond Boudon riesce a riassumere in sé alcune qualità che
lo rendono encomiabile agli occhi di chi scrive. E' un liberale a cui la sorte
ha riservato un destino curioso: lo ha fatto nascere in Francia, nazione in cui
il liberalismo è considerato una brutta malattia, e gli ha assegnato il
mestiere – difficile da esercitare per un liberale – di sociologo, rendendolo
straniero in patria e, si suppone, soprattutto in dipartimento.
In un libro notevole, ancorché piccino e divulgativo, il
nostro si pone la domanda delle cento pistole, che fornisce anche il titolo al
testo: Perché gli intellettuali non amano il liberalismo?
Già, perché?
Perché, in altri termini, una dottrina tanto illustre e
benemerita, in fin dei conti vittoriosa sul terreno della prassi, riceve
un'accoglienza così fredda presso le élites culturali? Perché le scienze
sociali, da alcuni decenni, sembrano essere diventate terreno di caccia per i
peggiori ideologismi, le fesserie più alla moda, le metodologie più
discrezionali?
Il libro contiene tante risposte, e non è il caso di
riportarle tutte. Mi limiterò a citare gli spunti che mi sono parsi più azzeccati.
Alla base di tutto c'è, a suo giudizio, un imbarazzante
declino della cultura. Se, fino agli anni '60, le scienze sociali – Boudon si
riferisce, in particolare, alla sua materia: la sociologia – erano orientate ad
un costante rigore di metodo e ad un'ammirevole serietà d'intenti, la
massificazione delle università e il cedimento alla vanità intellettuale ha
reso i suoi colleghi dei dottrinari pasticcioni, indifferenti alla realtà
fattuale ed empirica, e ipersensibili alle sirene dei rivoluzionarismi e delle
avanguardie. Questo avrebbe prodotto un minestrone antiscientifico in cui
scienza e opinione vengono cotte assieme, producendo risultati indigesti e
insalubri. Weber e Durkheim, spiega, erano gente seria, agganciata al reale; e
hanno prodotto vere conquiste di conoscenza. Viceversa, e con le dovute
eccezioni, i loro epigoni si sono lasciati andare. Hanno abbandonato le idee
vere – dice paretianamente Boudon – per abbracciare quelle utili.
Così, eccitati dalle loro stesse parole, i nuovi maître à penser
hanno iniziato a predicare il rovesciamento del sistema, condannando
senz'appello la miserabile realtà quotidiana, frutto della pratica capitalista
e della presunta egemonia liberale. Affascinati da ideologie che promettono
tutto e subito, hanno preso a spiegare problemi complessi con semplicismi
dietrologici rivestiti di erudizione. Laddove il pensiero liberale procede a
passi misurati, analizzando i problemi nella loro dimensione parziale e
circoscritta, il marxismo e i suoi derivati tirano fuori dal cilindro
spiegazioni onnicomprensive quanto fallaci e affascinati quanto approssimative.
Le scienze dure, sostiene Boudon, hanno resistito meglio a
questa sarabanda. Lì, la massificazione ha fatto meno danni. Per quanto
riguarda il resto, si è assistito ad un'ubriacatura di presunzione e di
illusionismi, di conformismo e di malafede.
D'altra parte, il ruolo dell'intellettuale, in una società
aperta è quanto mai controverso. Può vantare una libertà che non gli è
garantita da nessun altro regime politico, ma spesso sembra farne uso con
moderazione, preferendo aggregarsi al branco più cospicuo e feroce. Forse, gli
intellettuali non amano né il liberalismo né il capitalismo perché
percepiscono, a torto o a ragione, che il loro ruolo non è tenuto in grande onore,
o almeno non quanto vorrebbero. Si sentono superflui, in una società siffatta,
e perciò tendono a preferire un sistema pianificato, una specie di utopia
platonica che riservi loro uno status di privilegio. Nella società aperta
devono fare i conti con il mercato, che spesso li vede soccombere, devono
sgomitare per conquistare un posto al sole nella gerarchia sociale. In una
società burocratizzata, invece, soprattutto lo scienziato sociale è candidato
ad assumere i panni del consigliere del Principe – che può essere,
gramscianamente, anche il Partito – vagheggiare soluzioni politico-economiche
ardite e dar sfogo al suo utopismo.
Alla fine, in ultima analisi, aveva ragione il vecchio
Milton Friedman. I più grandi nemici della libertà, diceva, sono gli industriali
e gli intellettuali. I primi sono favorevoli alla concorrenza per gli altri, ma
al protezionismo per se stessi. I secondi sono favorevoli alla libertà
d'espressione per se stessi, ma vogliono imporre la loro volontà al resto del
mondo.
Saro Freni
Saro Freni è laureato in Scienze Politiche presso
l'Università “La Sapienza ”
di Roma, svolge attualmente, nello stesso ateneo, il dottorato di ricerca in
Studi politici. Ha vinto, nel 2010, il primo premio della Scuola di liberalismo
di Roma, di cui in seguito è divenuto coordinatore. Collabora con la Fondazione Einaudi.
E' membro dell'Istituto di Politica.
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