Il libro della settimana: Carl Schmitt, Dialogo sul potere,
a cura e postfazione di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano 2012, pp. 124, Euro
7,00.
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Che cos’è il potere? Ce lo spiega in poche battute Carl Schmitt. Un
gigante del pensiero politico, spentosi quasi centenario nel 1985, dopo essere
passato attraverso le fiamme della fornace novecentesca, le
cui ombre uncinate continuano ad allungarsi sulla sua
opera, offuscandone purtroppo il valore. Quindi un colosso dai piedi
d'argilla? Così sembra sostenere certa occhiuta critica, più
attenta a sezionare nei più microscopici dettagli i rapporti tra Schmitt
e il nazionalsocialismo che a dedicarsi allo studio, libero da
preconcetti ideologici, della sua teoria pura della politica. Ma
lasciamo stare.
Il libro in questione è Dialogo sul potere (Adelphi). Dove
sono raccolti, in forma di colloquio tra personaggi fittizi ma ben
scelti, due testi: il primo, da cui prende il titolo al volume;
il secondo che invece porta il nome di “Dialogo sul nuovo spazio”. Il
primo è di argomento politico, il secondo geopolitico. Del primo dialogo, per
inciso, piace ricordare l' edizione italiana a cura di Antonio Caracciolo,
apparsa sulla rivista “Behemoth” nel 1987. Senza ovviamente nulla
togliere all’ ottima versione curata da Giovanni Gurisatti. Va anche
segnalato, per capire la motivazione della scelta dialogica, che i due testi
vennero ideati nel 1954 per essere recitati e trasmessi, come poi avvenne, alla
radio tedesca. E con un discreto successo. Infine, il volume, ospita in
appendice il “Prologo” scritto da Schmitt per la bella edizione spagnola
del 1962.
Nel primo dialogo (politico) i protagonisti sono G. ( un
giovane studente che pone le domande) e C.S. (un professore, lo stesso
Schmitt), nel secondo dialogo (geopolitico), abbiamo un anziano storico,
Altmann ( dietro cui si scorge la straordinaria cultura
storica di Schmitt); un raziocinante scienziato cinquantenne,
Neumeyer; un giovane ed entusiasta nordamericano, MacFuture. Nei
due dialoghi, sostanzialmente, si fronteggiano, da un lato la solida visione
schmittiana del politico (come poderosa realtà
sociologica super partes ) e del geopolitico (quale gigantesco e vitale
conflitto tra potenze di Terra e di Mare), dall’altro i differenti “ismi”
che affascinano i moderni, rappresentati dal virtuismo del giovane
studente (nel primo dialogo), nonché dal supponente scientismo di Neumeyer e dal
progressismo cosmico dell'effervescente MacFuture ( nel secondo
dialogo).
Diciamo che Schmitt, pur essendo l'autore dei dialoghi, non
ne abusa... Ha la meglio grazie alla sua abilità di porre
più problemi che risposte. Ma, come accennavamo, ciò che lascia il segno è la
stupenda descrizione, degna di un anatomo-patologo (soprattutto nel primo
dialogo), del potere. Procediamo per gradi.
Innanzitutto, secondo Schmitt ( che parla
attraverso l’anziano professore…), « il potere è una dimensione peculiare
e autonoma, anche rispetto al consenso che lo ha creato (…), e anche rispetto
allo stesso potente. Il potere ha una dimensione oggettiva e autonoma rispetto
a qualsiasi individuo umano che di volta in volta lo detiene» (p. 20). In
qualsiasi tipo di regime, l’uomo politico, anche il più potente,
non può non rinunciare alla parola dei suoi consiglieri e
stretti sostenitori. Di qui, tra i suoi uomini di
fiducia, quella lotta per il potere indiretto,
legata alla possibilità di influire sulle sue decisioni. Lotta
che innesca meccanismi che vanno oltre le normali capacità controllo dello
stesso sovrano. Insomma, il « potere è qualcosa di più sia della somma di tutti
i singoli consensi che ottiene sia del loro prodotto» (p. 18): una specie
di fenomeno super partes che ha trovato, mai come in
passato, un facile terreno di sviluppo nella società
contemporanea. Dove, secondo Schmitt, « il potere del singolo
potente risulta essere niente più che l’epifenomeno di una situazione derivante
da un sistema di divisione del lavoro cresciuta oltre ogni limite» (p. 38). Di
conseguenza « ciò che produce tutto questo non è più l’uomo in quanto uomo,
bensì una reazione a catena da lui provocata. Nella misura in cui oltrepassa i
limiti della physis umana, essa trascende anche qualsiasi dimensione interumana
di ogni possibile potere di uomini su uomini. Anche la relazione tra protezione
obbedienza ne viene travolta. Assai più della tecnica, è proprio il potere a
essere sfuggito di mano agli uomini» (p. 39). Di qui, la necessità di
recuperarlo. Ma come? Forse - come chiede ingenuamente lo studente G. -
con ulteriori scoperte scientifiche? Ecco la risposta schmittiana: «Sarebbe un
bene. Ma come possono cambiare il fatto che oggi potere e impotenza non si
fronteggiano più faccia a faccia, e non si guardano più da uomo a uomo? Le
masse umane che si sentono esposte, inermi, agli effetti dei moderni mezzi di
distruzione sanno anzitutto di essere impotenti. La realtà del potere è al di
sopra della realtà degli uomini. Non dico che il potere di uomini su uomini sia
buono. Non dico neanche che sia cattivo. Meno che mai dico che sia neutro.
Inoltre, da uomo pensante mi vergognerei di sostenere che il potere è buono se
ce l’ho io ed è cattivo se ce l’ha il mio nemico. Dico solo che è una realtà
autonoma rispetto a ciascuno, anche rispetto al potente, che il potere
irretisce nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di
potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, anche di ogni umana
cattiveria» (p. 41).
Questa visione del potere come poderosa entità sociologica
super partes, dotata di forza propria, sulla quale alla fin fine gli uomini
nulla possono, sembra però non essere l’ultima parola di Schmitt. Il
quale mostra di non essere poi così desideroso di inchinarsi,
acquiescente, al cieco e compatto flusso del reale,
magari invocando, come un antico saggio, la sospensione del
giudizio. Infatti, nel secondo dialogo, per bocca dello
storico Altmann, si apre uno spiraglio di
luce, o forse più che uno spiraglio: « Mi sembra (...) -
rileva il personaggio in cui Schmitt si immedesima - che la
tecnica scatenata, più che aprire nuovi spazi all’uomo lo chiuda in gabbia. La
tecnica moderna è utile e necessaria, ma ben lungi dall’essere a tutt’oggi la
risposta a una chiamata. Essa soddisfa bisogni sempre nuovi, in parte indotti
da lei stessa. Per il resto è proprio lei a essere messa in questione, e già
per questo non può essere una riposta» . E allora? « MacFuture - prosegue
Schmitt-Altmann - , lei diceva prima che la tecnica moderna ha reso
risibilmente piccola la nostra terra. Ciò significa che i nuovi spazi da cui
proviene la nuova chiamata debbono trovarsi qui sulla nostra terra, e non fuori
nel cosmo. Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla
inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai
più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla
Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questo sarebbe, per
esempio, l’azione di un Nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la
nuova chiamata la sfida del presente» (p. 87).
Diciamo che l’uomo è arrivato sulla Luna ed
è più lontano che mai dal sottomettere la
«tecnica scatenata». Quindi la sfida lanciata da Carl Schmitt, nel secondo
dialogo, resta attuale . Anche se la vera questione di fondo, che
va oltre le diverse forme di governo, rimane quella da lui
impietosamente tratteggiata nel primo dialogo: come afferrare ed
esercitare il potere senza diventarne le vittime?
Carlo Gambescia
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