Riflessioni
Suicidi
e crisi economica
È
ancora presto per parlare di una svolta “quantitativa”. Ma fatto è
che sui giornali appaiono sempre più spesso notizie di persone
suicidatesi per ragioni legate alla
crisi economica (perdita del lavoro, insolvenza, eccetera).
Da
sempre esiste un legame sociologico,
comprovato - basta sfogliare il classico studio di Durkheim (Le suicide, 1897) - tra suicidio e crisi economica. Non solo:
sussiste anche un nesso, anch’esso verificato, tra suicidio e crescita
economica. Il che significa che sulla
psiche individuale, e sui conseguenti comportamenti sociali, influiscono sia le fasi di crisi, sia le fasi
di sviluppo. Perché?
La
questione rinvia ai rapidi cambiamenti di status ( sia in salita, sia in
discesa), o se si preferisce al rischio stesso di velocissimi cambiamenti di
status, non “sostenuti” culturalmente e socialmente Un cambiamento
(migliorativo o peggiorativo) che
spaventa - ecco la lezione di Durkheim -
quanto più un ordine sociale resta priva di regole e quindi di
capacità coadiuvare il singolo nella ricerca di un conferimento di senso alla propria vita,
tanto più crescono i suicidi, legati al timore di fare un passo indietro o di
farne uno o due in avanti, temendo di
dover prima o poi “retrocedere”. Perciò
non sono le situazioni oggettive di crisi e prosperità a favorire il suicidio,
ma l’assenza di regole sociale inclusive.
Di qui, la definizione
durkhemiana, di suicidio anomico ( dal greco anómia: a- priv. + nómos “legge”, assenza di legge).
Concludendo,
povertà e ricchezza, di per sé, non
influiscono sul suicidio, se non in una
situazione di anomia. Quanto più una società si compone di individui
socialmente responsabili, a qualsiasi livello,
tanto più allontana da sé il
pericolo del suicidio anomico.
Carlo
Gambescia
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