Italia (tanto per cambiare)
Tutti contro tutti
Un po’ di retorica para-religiosa non si
nega a nessuno. Quel che Giulio Tremonti, pomposamente definisce un “tornante”
economico della storia, non è che un elegante escamotage per far digerire agli italiani la manovra
correttiva. E come? Invocando la divina provvidenza del mercato, che una volta
“guarito” distribuirà “euri” a tutti.
Ma perché non giustificarla in nome di un interesse comune chiamato Italia? E qui cade l’asino. Perché gli italiani - tutti, dalla coda alla testa del famigerato pesce - hanno sempre avuto storicamente qualche problemino a identificarsi nel tricolore. E così anche Tremonti, con il placet a denti di stretti di Berlusconi, si è dovuto arrangiare tirando fuori dal cilindro il “bau-bau” della crisi. Dove latita un credo comune, ma anche l’ orgoglio di rappresentarlo, bisogna puntare sulla paura. Nel caso, quella verso l’ iroso dio mercato: “Italiani fate i bravi, perché altrimenti le Borse si arrabbiano e arrivederci e grazie a euro, casa, lavoro, mutuo, moglie, amante, eccetera”.
Gli antropologi americani, piovuti in massa in Italia nel secondo dopoguerra per studiarci e forse cambiarci, si inventarono la categoria del “familismo amorale” italiano, particolarmente vivace a Sud di Roma. Tradotto: Patria, niente, Dio così e così, famiglia tutto…
Italiani per caso? Forse. Oddìo, soprattutto nell’Italia Repubblicana, si è cercato di puntare sul “patriottismo costituzionale”: sulla Costituzione, come massimo momento rappresentativo “del nostro essere italiani”, per dirla con Napolitano.
Ma, si sa, la nostra Costituzione, si presta a essere tirata un po’ di qua e un po’ di là, come la classica coperta troppo corta. Risultato: il patriottismo costituzionale non funziona… E le conseguenze si notano sul piano politico e amministrativo. Dove tutti sembrano essere contro tutti: maggioranza contro opposizione (il che ci potrebbe pure stare…); opposizione interna alla maggioranza; opposizione interna all’opposizione; magistratura contro governo; Nord contro Sud; regioni contro comuni; regioni e comuni contro province; regioni contro regioni, comuni contro comuni … E l’elenco potrebbe continuare.
Ma anche gli immigrati hanno subito capito l’andazzo. E così ora abbiamo cinesi contro latino-americani, rumeni contro albanesi, immigrati di prima generazione contro immigrati di seconda. E chissà che succederà con la terza… E, ovviamente, italiani contro immigrati, cristiani contro musulmani, eccetera.
In questo caos, parlare di società multiculturale diventa una questione secondaria, perché prima gli italiani dovrebbero accordarsi “culturalmente” tra di loro, e poi, a ruota, con tutti gli altri… Il che alla luce di un patriottismo costituzionale a corrente alternata potrebbe richiedere un altro secolo e mezzo. Ma chi ci assicura che nel 2160, l’Italia, come entità nazionale (per non parlare dell’Europa “unita”), sarà ancora fra noi?
In realtà, il problema della mancanza di un idem sentire, e quindi di un interesse condiviso ad andare d’accordo, non può non riflettersi sul piano politico: quello della “decisione”, per dirla con il grande Carl Schmitt. Nel senso che, se tutti litigano, chi decide? Insomma, chi si assume la responsabilità? Chi ci mette la faccia?
Ciò spiega perché Berlusconi e Tremonti - ma in passato anche la sinistra - devono appellarsi al dio mercato, : l’unica “forza superiore”, che una volta soddisfatta, grazie ai nostri fioretti, potrà garantirci un futuro migliore…
Il che non è falso, perché l’economia conta. Ma da sola non basta. Perché si dovrebbe credere - tutti - in una causa comune chiamata Italia. Ma come spiegarlo a 60 milioni, tanto per dirne un’altra, di tecnici della nazionale di calcio?
Forse puntando sulla Repubblica Presidenziale. Quella “atipica” di Mussolini non funzionò bene. Quella venuta dopo così e così. Che siano gli italiani a non funzionare?
Ma perché non giustificarla in nome di un interesse comune chiamato Italia? E qui cade l’asino. Perché gli italiani - tutti, dalla coda alla testa del famigerato pesce - hanno sempre avuto storicamente qualche problemino a identificarsi nel tricolore. E così anche Tremonti, con il placet a denti di stretti di Berlusconi, si è dovuto arrangiare tirando fuori dal cilindro il “bau-bau” della crisi. Dove latita un credo comune, ma anche l’ orgoglio di rappresentarlo, bisogna puntare sulla paura. Nel caso, quella verso l’ iroso dio mercato: “Italiani fate i bravi, perché altrimenti le Borse si arrabbiano e arrivederci e grazie a euro, casa, lavoro, mutuo, moglie, amante, eccetera”.
Gli antropologi americani, piovuti in massa in Italia nel secondo dopoguerra per studiarci e forse cambiarci, si inventarono la categoria del “familismo amorale” italiano, particolarmente vivace a Sud di Roma. Tradotto: Patria, niente, Dio così e così, famiglia tutto…
Italiani per caso? Forse. Oddìo, soprattutto nell’Italia Repubblicana, si è cercato di puntare sul “patriottismo costituzionale”: sulla Costituzione, come massimo momento rappresentativo “del nostro essere italiani”, per dirla con Napolitano.
Ma, si sa, la nostra Costituzione, si presta a essere tirata un po’ di qua e un po’ di là, come la classica coperta troppo corta. Risultato: il patriottismo costituzionale non funziona… E le conseguenze si notano sul piano politico e amministrativo. Dove tutti sembrano essere contro tutti: maggioranza contro opposizione (il che ci potrebbe pure stare…); opposizione interna alla maggioranza; opposizione interna all’opposizione; magistratura contro governo; Nord contro Sud; regioni contro comuni; regioni e comuni contro province; regioni contro regioni, comuni contro comuni … E l’elenco potrebbe continuare.
Ma anche gli immigrati hanno subito capito l’andazzo. E così ora abbiamo cinesi contro latino-americani, rumeni contro albanesi, immigrati di prima generazione contro immigrati di seconda. E chissà che succederà con la terza… E, ovviamente, italiani contro immigrati, cristiani contro musulmani, eccetera.
In questo caos, parlare di società multiculturale diventa una questione secondaria, perché prima gli italiani dovrebbero accordarsi “culturalmente” tra di loro, e poi, a ruota, con tutti gli altri… Il che alla luce di un patriottismo costituzionale a corrente alternata potrebbe richiedere un altro secolo e mezzo. Ma chi ci assicura che nel 2160, l’Italia, come entità nazionale (per non parlare dell’Europa “unita”), sarà ancora fra noi?
In realtà, il problema della mancanza di un idem sentire, e quindi di un interesse condiviso ad andare d’accordo, non può non riflettersi sul piano politico: quello della “decisione”, per dirla con il grande Carl Schmitt. Nel senso che, se tutti litigano, chi decide? Insomma, chi si assume la responsabilità? Chi ci mette la faccia?
Ciò spiega perché Berlusconi e Tremonti - ma in passato anche la sinistra - devono appellarsi al dio mercato, : l’unica “forza superiore”, che una volta soddisfatta, grazie ai nostri fioretti, potrà garantirci un futuro migliore…
Il che non è falso, perché l’economia conta. Ma da sola non basta. Perché si dovrebbe credere - tutti - in una causa comune chiamata Italia. Ma come spiegarlo a 60 milioni, tanto per dirne un’altra, di tecnici della nazionale di calcio?
Forse puntando sulla Repubblica Presidenziale. Quella “atipica” di Mussolini non funzionò bene. Quella venuta dopo così e così. Che siano gli italiani a non funzionare?
Carlo Gambescia