Angelo Panebianco
e la “fine del
socialismo della spesa”
.
Prima di tutto è necessario spiegare cosa intende Panebianco per socialismo
della spesa.
Il
socialismo europeo è stato, prima di tutto, e soprattutto, uso della spesa
pubblica per fini di ridistribuzione, ampliamento costante di quelli che, nel
linguaggio socialista, venivano chiamati «diritti» (ossia, l’ accesso alle
prestazioni sociali dello Stato) in nome di un principio di uguaglianza. Ma se
tutto questo diventa economicamente insostenibile, se persino il carattere
universale delle prestazioni di welfare (che comunque, ancorché ridimensionate,
sopravviveranno) rischia di essere messo in discussione a causa della scarsità
delle risorse e della conseguente necessità di scegliere i soggetti a cui
continuare a erogare le prestazioni e i soggetti da escludere, il socialismo
finisce per perdere gran parte della sua ragione sociale.
Va
notato innanzitutto l’approccio realista: il socialismo come fattore
redistributivo collegato alle risorse disponibili. Uno schema concettuale
accettabile sul piano analitico. Ma che non può essere ridotto a unico elemento
interpretativo, soprattutto sul piano sociologico. E per una ragione molto
semplice: spingere l’acceleratore analitico sul nesso risorse/redistribuzione,
sottovaluta la questione del consenso sociale.
Perché, per usare ancora il linguaggio di Panebianco, se è vero che il
socialismo della spesa respingendo i tagli mostra di credere "nell’uovo
oggi”, è altrettanto vero, che con i tagli cui si accompagna la promessa
mercatista “della gallina domani”, si rischia di costruire un consenso “a
breve” anche intorno a quell' idea di mercato che sembra stare così a cuore
all'editorialista del "Corriere della Sera".
Il vero punto della questione - che sfugge a Panebianco - è come costruire
intorno alla “welfare austerity” un consenso sociale di lungo periodo. E dello
stesso tipo di quello sviluppatosi nel “glorioso trentennio” intorno all’ idea
welfarista. Perché gli uomini non obbediscono “a comando”… Non sono solo ciò
che mangiano, ma soprattutto ciò in cui credono. E liberamente. I "diritti
sociali" non sono un optional ma un valore e un fattore di aggregazione e
consenso sociale, di cui si deve tenere conto sul piano politico e analitico.
Pertanto non sembra sufficiente, come invece ritiene Panebianco, che i
“socialisti della spesa” si impongano di “riscrivere di sana pianta la propria
‘ragione sociale’, i propri fini politici” per fare un piacere a mercati che
non rispettano nessuno: né i politici progressisti né quelli conservatori, né
tantomeno la gente comune... Il che significa che anche i “conservatori” devono
riscrivere la loro, di ragione sociale. Puntando su un conservatorismo
equilibrato. E di sicuro non mercatista a oltranza: thatcheriano, se si vuole.
Certo, senza per questo dover sposare le ragioni del socialismo della spesa.
Insomma, se proprio vogliamo discutere di conservatorismo, dobbiamo parlare di
un conservatorismo capace di andare oltre la dicotomia uovo oggi (socialismo
della spesa) gallina domani (mercatismo neoliberista) alla quale Panebianco
sembra ridurre la dialettica politica. Ogni dialettica politica.
Un esempio di conservatorismo equilibrato è possibile coglierlo in una figura
storica del conservatorismo inglese Harold Macmillan. Racconta Henry Kissinger:
.
“[Macmillan] durante lo sciopero dei
minatori del 1984, mi
disse che, pur rispettando la signora Thatcher e comprendendo ciò che voleva
fare, non avrebbe mai avuto il coraggio di condurre una lotta definitiva con i
figli di uomini che si erano sacrificati altruisticamente nella prima guerra
mondiale” .
(H.
Kissinger, L’arte della diplomazia,
Sperling & Kupfer, Milano 1996, p. 462)
.
E' il caso di aggiungere
altro?
Carlo Gambescia
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