Il libro della settimana: Daisaku Ikeda
– Majid Tehrenian, Civilità globale. Un dialogo tra Islam e
Buddismo, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2004 pp. XI-287 (a cura di Stefano Boninsegni*)
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La pubblicazione del testo che andiamo a
tratteggiare, è destinata a sollevare stupore e sconcerto tra coloro che hanno
qualche nozione e cognizione su Daisaku Iked e il suo pensiero appresa tramite
“specialisti” delle nuove sette, che dipingono la Soka Gakkai come
un’organizzazione integralista, settaria manipolativa della coscienza dei
membri ecc. Massimo Introvigne fa notare che in realtà essa era stata
l’organizzazione laica del clero secolare della Nichiren Shoshu, ma che per i
metodi di un proselitismo martellante, può essere inclusa tra le nuove sette.
Detto, per inciso, in tali giudizi dispregiativi, qualche elemento astratto di
verità vi è senz’altro, sebbene tutti viziati dal pregiudizio banalizzante del
buddismo tutto pace e meditazione, un' avversione religiosa della California
targata anni Sessanta: il re buddista Asoka, ad esempio, fu assai intollerante.
Ikeda insomma, non avrebbe alcun titolo per rappresentare il buddismo. Fra
l’altro la Soka Gakkai
è stata scomunicata dal clero della Nichiren Shoshu, per vari motivi dottrinari
e liturgici.
La Soka Gakkai, lo ricordiamo, ebbe un grande sviluppo negli anni Cinquanta e
Sessanta, sotto la guida di Josei Toda, semplice maestro elementare che univa
cultura a uno spiccato senso degli affari, grazie al quale pose la base
finanziaria per la crescita dell’organizzazione buddista.
A Toda, dopo la sua morte, succedette il giovane Daisaku Ikeda, della cui
devozione al maestro non vi è dubbio, ma la Soka Gakkai inizia a
cambiare. Se gli scopi della setta sotto la direzione di Toda, erano
essenzialmente religiosi, adesso si guarda con interesse al sociale e alle
arti, ma soprattutto ciò che conta è l’emersione dell’essere intellettuale di
Ikeda. , segnato da una passione filosofica ispirata alla massima apertura ,
che convive con una versione fondamentalista del pensiero di Nicheren in quanto
presidente del Soka Gakkai.
Su questa passione di ricerca prende vita insomma, un percorso intellettuale
che lo porterà ad “imbattersi” nell’idea di affidare all’islamico Majid
Tehranian (1996) la direzione del Toda Institute for Global Peace and Policy
Research, un organo cioè essenziale per la strategia della Soka Gakkai, che non
è una semplice operazione di immagine, ma il risultato, come emerge da questo
testo, di un lungo e travagliato percorso intellettuale e religioso.
Theranian è un musulmano sufi, ribelle ad ogni dogmatismo, portatore di una
sorta di ecumenismo integrale, ovvero l’idea che le diverse religioni sono
manifestazioni diverse dell’unico principio fondamentale, al quale per via
esoterica saggi indù, cristiani, buddisti ecc, si sono illuminati: le vie sono
diverse, ma l’illuminazione è la stessa. Tale posizione si ritrova
essenzialmente, in autori quali Annie Besant, René Guénon, Ananda Coomaraswamy.
Ovviamente non è certo la prima volta che islamici e buddisti dialogano, come
ricostruito in Civiltà globale,
il cui aspetto più notevole, fra gli altri, è rappresentato dalla svolta
filosofica in senso pessimista, nonché ecumenico, dell’influente intellettuale
giapponese.
L’Occidente (in senso ideologico), afferma, ha distrutto e distrugge le
differenze fra le culture, e quindi le culture stesse. Le cose perdono di
significato, tutto precipita in uno stato di cinismo, confusione,
individualismo cieco, all’insegna di una omologazione americanorfa. E questo
non è affatto casuale, ma l’effetto di alcuni elementi intrinseci il progetto
stesso della Modernità.
Rispetto ai disastri ambientali “lascia” dire a Tehranian: “E’ l’arroganza del
progetto illuminista, che assegnava all’essere umano la superiorità e il
dominio sulla natura”. Ma pensare ciò non significa abbandonarsi al nichilismo:
Ikeda riprende e fa proprio esplicitamente il gramsciano “pessimismo della
ragione e ottimismo della volontà”.
E’ in questa disposizione di animo che dialoga con il più “ottimista”
intellettuale iraniano, il quale inizia dalla constatazione che, nonostante la
globalizzazione sia un fatto, non è emerso un punto di vista globale, sopperito
invece dall’imperialismo ideologico dell’Occidente. L’obiettivo quindi è la
costruzione di una civiltà globale, attraverso la sintesi delle grandi
narrazioni religiose: il tutto all’insegna del pluralismo culturale, con
licenza di inedite contaminazioni.
Ikeda, rispetto a ciò , conviene e risponde sottolineando la necessità
prioritaria di un dibattito fra religioni, il cui vero obiettivo non è tanto la
risoluzione di conflitti, ma come ridestare il senso religioso del mondo senza
il quale non vi può essere creazione di valore, e quindi le culture. Né Ikeda
né Tehranian credono, per inciso, al carattere religioso del cosiddetto
“risveglio islamico”. Occorre all’inverso mettere in evidenza ciò che unisce
rispetto a ciò che divide, per scoprire poi che ciò che unisce prevale
ampiamente. Anche quando la differenza sembra palese, Ikeda insiste sul fatto
che ad un livello più profondo vi possa essere concordanza: per chi segue il
pensiero di Ikeda semmai si pone il problema di capire se tale ecumenismo sia
dettato dalle circostanze, ovvero il fare causa comune contro i demoni della
miscredenza, oppure se sia dettato da necessità interne al suo pensiero. In
questo senso Ikeda sicuramente, dati i cambiamenti strutturali in atto,
teorizza una religione semplice e universale, che tutti possono osservare,
indipendentemente dal proprio credo.
L’intellettuale giapponese la rintraccia nel pensiero del Mahatma Gandhi, e
quindi in un ambito diverso dal buddismo. Il che non stupisce viste le aperture
all’induismo contemporaneo presenti nell’Ikeda odierno.
Ma in ogni caso, è sua convinzione che la salvezza provenga da zone periferiche
o fuori dal mondo globalizzato da cinquecento multinazionali. Afferma: “ Credo
sinceramente che una saggezza e una forma di azione nuove emergono dalle aree
periferiche rispetto al libero mercato e alle economie basate su un forte
consumismo di massa”. Rispetto a questo punto di vista, presente anche in
pensatori come Serge Latouche, Ikeda e Tehranian ricordano il pensiero e
l’azione di Amartya Sen, nonché l’esperienza della “banca dei poveri” ideata
dal dottor Yunus.
Il luogo paradigmatico per eccellenza delle riconciliazione fra economia e
società è comunque il suq delle città arabe e musulmane, dove il prezzo di un
prodotto è il risultato di contrattazioni non astraibili dai rapporto sociali
complessivi. Città che Ikeda ha visitato e ama, la cui moderazione contrappone
alla nevrosi della città abitate dai fanatici del super lavoro e del super
consumo. Nei vicoli del suq frammista al brusio si respira un’ineffabile
spiritualità, scandita dalle inesorabili preghiere quotidiane.
In conclusione, un libro che esprime un atto di accusa all’Occidente
sofisticato e non gridato, ma assai più stringente.
.
Stefano Boninsegni
(*) Oggi pubblichiamo la recensione di Stefano Boninsegni, apparsa sulla rivista “Argilla”, n.1, Primavera 2007. Boninsegni è uno studioso di Sorel, nonché autore di saggi di argomento sociologico e filosofico sul movimento operaio, l’individualismo di massa e la crisi del legame sociale. Ma anche, come il lettore scoprirà, sottile indagatore di questioni religiose e spirituali. Tra le sue opere ricordiamo in particolare New Economy (Settimo Sigillo). (C.G.)
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